6. Stemless Rose

L’ho quasi raggiunta

Gli stivali affondavano nella terra morbida arata dai campi. Con la mano destra teneva stretta l’impugnatura dello spadone ancora attaccato alla schiena, tenendolo leggermente alzato per non far sbattere l’arma contro la cotta di maglia. Era importante continuare a sentire l’urlo della donna che correva davanti a lui. E che correva anche più di lui. La paura metteva più energia e Kanalagon aveva anche lo zaino sulle spalle. Arrivò ad un sentiero battuto dai carri. Si fermò e si guardò intorno. La nebbia era ancora molto fitta. Sentì un altro grido davanti a sé, lungo il sentiero. Scattò in avanti senza pensarci. Dopo qualche metro arrivò ad un crocevia dove la nebbia era leggermente più rada. A terra le tracce non erano visibili. Si concentrò per scovare il male intorno a lui, se la donna fosse seguita da uno zombi o da un ghoul avrebbe percepito la presenza in movimento e se fosse stato più di uno a correre nella stessa direzione avrebbe trovato la direzione certa da seguire.

Concentrati!

Sei aure malvagie. Si dirigevano tutte nella stessa direzione, la sua. Lo stavano accerchiando ma erano lente. Aprì gli occhi e si concentrò di nuovo per carpire un suono che gli facesse intuire dove fosse andata la donna. Gli bastavano pochi secondi ancora, poi sarebbe partito, un altro secondo solamente. Ma l’unico suono che sopraggiunse era il lamento profondo e gutturale di uno zombi che si trovava a pochi metri da lui, la cui sagoma cominciava a delinearsi tra le nebbie. Era troppo tardi oramai, li avrebbe dovuti abbattere per proseguire e doveva farlo senza fare troppo rumore, per non attirarne altri. La distanza e il terreno che lo separavano dal primo che sopraggiungeva erano ideali per una carica. Imbracciò lo spadone con entrambi le mani e lo puntò a terra davanti a sé. Il non-morto si palesò. Era scarnificato, vestiva degli stracci laceri che facevano presumere fosse stato un bracciante nella sua precedente vita. Un braccio era mozzo, l’altro era proteso in avanti verso il suo bersaglio. I suoi occhi vacui sembravano fissare il vuoto ma l’incedere strascicato era diretto proprio verso il paladino. Con bramosia e fame chiudeva ritmicamente la mascella che mostrava i pochi denti rimasti. Alla sua vista il mezz’elfo provò pietà più che agonismo da battaglia. Quel sentimento nell’animo si trasformò in determinazione.

Ti libererò da questa non-vita

La punta della pesante lama era poggiata a terra, fece perno su di essa e poi tre passi, descrivendo a terra una falce di luna, dando le spalle allo zombi e portando il peso sulla gamba sinistra, alzò lo spadone da terra, facendolo ruotare e innalzandolo sopra la testa. Poi lo calò con vigore dall’alto verso il basso, come una ghigliottina. L’acciaio cadde inesorabile sul cranio del cadavere ambulante aprendolo in due e finì per bloccarsi al centro del petto. Aiutandosi con il piede, Kanalagon liberò l’arma dal corpo inerme abbattuto. Alla sua destra erano già sopraggiunti altri due morti erranti. Con uno slancio del corpo fece ruotare lo spadone lateralmente per colpire di lato il primo zombi, prendendolo sulla spalla, recidendo un braccio di netto e sbilanciandolo. Cadde contro l’altro al suo fianco rovinando a terra. Con un balzo fu sopra di essi e recise, dalla base del collo, la testa del mutilato mentre con il proprio peso schiacciava la schiena del secondo, trattenendolo con il viso contro il terreno. Mentre si guardava attorno cercando di capire quanti ce ne fossero, il morto da terra ruotò il braccio per togliere il peso che lo opprimeva e lacerò con le unghie il ginocchio del paladino che, sorpreso dell’attacco, scattò all’indietro emettendo un gemito. Si guardò la piccola ferita, non era nulla di grave. Con un fendente ben assestato recise una gamba all’altezza della coscia al morto che si stava alzando dalla sua posizione prona, gettandolo di nuovo nella polvere del sentiero. Poi altri brontolii sommessi alla sua sinistra. Si stavano avvicinando. Il mostro a terra, privo della gamba, strisciò verso di lui, trascinandosi con le mani. Il mezz’elfo finì la sua avanzata con due calci forti che spappolarono la testa. Erano morti da settimane. Le ossa e la loro resistenza risentivano della decomposizione in atto sui loro corpi. Altri tre comparirono dai campi. Uno di essi era bardato con armatura, in testa un elmo. Forse un avventuriero e il suo stato di decomposizione era solo accennato. Probabilmente deceduto solo da un paio di giorni. Ai suoi lati altri due, un fattore e una bambina.

Dio, Dammi la forza!

Indietreggiò fino a farsi seguire al centro del crocevia e cominciò a girare in tondo cercando il varco adatto per fronteggiarne uno alla volta. Voleva cominciare dalla bambina, il compito moralmente più difficile all’inizio, così il resto era solo scherma. Ma anche se sapeva che la fanciulla era già morta si trovò emotivamente bloccato, non poteva perdere altro tempo così scelse il fattore. Si spostò con ampi passi a sinistra e lo lasciò avvicinare fino a farsi quasi prendere dalle mani del non-morto, con una finta lo indusse ad attaccarlo e, scartandolo di lato lo colpì nell’addome con un fendente che si fermò contro le vertebre e che invece di recidere il corpo in due parti non fece altro che riversare gli intestini a terra. Il non-morto, non accusando dolore, non accennò a rallentare il suo attacco e si lanciò di lato sul suo assalitore. Le mani arrivarono al collo e affondarono le unghie nella carne, fatta presa si lanciò a fauci spalancate verso il viso della sua preda viva ma la mano aperta di Kanalagon bloccò il tentativo di morso e con vigore lo spinse verso il basso, facendolo ruzzolare carponi. La lama cadde allora sulla schiena del cadavere ambulante ora scoperta, tagliandolo in due. Senza curarsi della ferita al collo e senza perdere tempo cercò di spingere a terra anche l’avventuriero non-morto che si trovò subito avanti. Ma quest’ultimo era già su di lui con tutto il suo peso. Si liberò dalla stretta del nemico che gli serrava le spalle e corse nella direzione opposta per prendere distanze. Dopo qualche falcata si girò per fronteggiare l’assalitore che giungeva con passo lento. Il paladino guardò con attenzione l’armatura che vestiva il non-morto. L’occhio cadde sul fregio del bavero. Una rosa senza gambo era stata incisa e decorata con vernice rossa. Scelto il punto dove assestare il suo colpo caricò con cura lo spadone. Al momento esatto calò la lama ma l’arma si incastrò, bloccandosi tra il bavero e la spalliera. Diede uno strattone deciso verso il nemico ma l’arma non si mosse. Allora tenne salda l’impugnatura mantenendo lo zombi a distanza oltre la portata dei suoi artigli ma la situazione era in stallo. Non poteva colpirlo e non poteva essere colpito. Guardò intorno a terra, per cercare qualcosa con cui colpire il cranio del non-morto. In quell’istante la bambina comparve da dietro il nemico e lo azzannò sulla coscia, lacerando il muscolo. Uscì sangue copioso che inondò il viso del piccolo mostro, che bevve avida.

La spada lunga nella sua cinta!

Con velocità prese la spada ancora nel fodero dell’avventuriero davanti a sé, la sfilò rapidamente con la mano sinistra e affondò nel petto della fanciulla mandandola violentemente a terra. Dopodiché con forza calò due fendenti ripetuti tra il bavero e l’elmo dello zombi dinanzi decapitandolo al secondo colpo. Lasciò entrambe le impugnature e cadde a terra reggendosi la gamba sinistra. La ferita era profonda. Mordendosi un labbro per non gemere di dolore, chiuse gli occhi e si concentrò. Mise il palmo aperto sulla ferita e con il proprio potere taumaturgico fermò l’emorragia. La ferita si chiuse ma rimase visibile e violacea. Non aveva abbastanza potere per curarla definitivamente. Serviva il chierico. In quel momento si accorse che perdeva anche sangue dal collo ma ormai il suo potere era esaurito. Strappò parte del lacero mantello rosso che l’avventuriero decapitato vestiva ancora e se lo legò al collo per tamponare la ferita. Poi si alzò a stento, chiuse di nuovo gli occhi per cercare altri nemici attorno a sè ma era solo. Scrutò il corpo della bambina che aveva colpito. Si muoveva ancora. Se non avesse assestato un colpo deciso alla testa non avrebbe messo fine alle sue sofferenze. Riprese la spada lunga da terra e si fermò sul corpo che si divincolava. La guardò negli occhi bianchi senza iride, i capelli neri crespi e sporchi di sangue e fango adornavano un viso che era ancora intatto dalla morte. Le labbra non c’erano più. Schioccava continuamente la mascella in cerca di qualcosa da mordere. I denti si serrarono sulla punta della spada. Passarono interminabili secondi. Poi con un colpo deciso affondò l’acciaio fin dentro il cranio. Alzò gli occhi davanti a sé per guardare cosa fosse rimasto del combattimento. Uno zombi tagliato in due si muoveva ancora nella sua direzione cercando di raggiungerlo. Si era girato su se stesso diverse volte in quel crocevia e non ricordava da dove fosse venuto. La sua determinazione nel cercare la donna lo aveva distratto dalla basilare capacità che ogni avventuriero acquisisce all’inizio del proprio apprendistato, l’orientamento. La nebbia sembrava meno densa in uno delle quattro direzioni. Fece qualche passo e riuscì a scorgere un edificio in lontananza. Un riparo era quello che serviva. Indietreggiò fino al corpo della fanciulla e, avvolgendolo nel lacero mantello rosso di prima, lo prese sulla spalla, dirigendosi lungo il sentiero scelto. Raccolse la spada lunga, estratta precedentemente dalla cinta del suo nemico, e lasciò il suo spadone a terra. Se avesse dovuto ancora combattere da solo e accerchiato dai non-morti, un’arma più leggera sarebbe stata la salvezza. Il suo spadone adesso era uno svantaggio e portarlo era un peso in più. Mai attaccarsi agli oggetti, sono solo uno strumento. È l’individuo che rende l’oggetto letale. Questo insegnamento non l’aveva dimenticato. Pensare alla spada e all’equipaggiamento gli aveva alleggerito l’animo. Ora la sua mente e il suo pensiero andavano al fagotto in spalla e alla donna che aveva seguito e di cui non sentiva più nessun suono. Forse aveva avuto lo stesso fato della bambina, trasformata nei suoi assassini oppure divorata ancora viva da essi. Mentre pensava a tutto ciò l’edificio scorto in precedenza divenne più nitido. Era la chiesa che Agladur aveva menzionato. Un edificio di medie dimensioni, adatto al numero di braccianti che era nei campi a lavorare nella valle. Era costruita su un leggero pendio. Aveva tre navate, il tetto a doppia pendenza in legno. A sud-est una torre campanaria a sei piani, con finestre ad arco ad ogni piano. L’edificio era costruito con blocchi di marmo, con elementi decorativi e finestre in pietra pomice. Le facciate decorate con fregi e pilastri. Il simbolo della divinità patrona era scolpito sull’arco dell’entrata. Una cornucopia traboccante vivande. La Dea era conosciuta come “la Protettrice e la Provvidente”, da altri come “la Benedetta” o “la Matriarca che nutre”. Il suo credo era diffusissimo tra tutte le popolazioni di qualsiasi razza che avessero una cultura agreste e tra quasi tutti i mezz’uomini, che erano rinomati per la loro intima comunione con la terra e con i suoi frutti. Il portone a due ante di metallo e legno era aperto, ma il paladino non entrò. Si soffermò una manciata di secondi sull’entrata concentrandosi per esplorarne l’interno con i suoi poteri divinatori. Dopo di che svoltò a destra e comincio a girare intorno all’edificio. Arrivò sul retro nella zona che cercava, il cimitero. Vi erano circa quaranta lapidi, tutte disposte davanti al muro semicircolari dell’abside. Erano tutte aperte, scavate dall’interno. I morti si erano alzati ed avevano cominciato a vagare nella valle. Un sacerdote li aveva alzati volontariamente ne era certo. Li aveva destati dal loro sonno e li aveva mandati nei campi a fare nuovi membri per rinvigorirne le fila. La morte della bambina che aveva sulla spalla aveva un colpevole e Kanalagon era deciso a trovarlo. Ripose il corpo, avvolto nel sudario improvvisato, nella prima tomba che trovò ma deponendo il corpo il suo sguardo cadde sul mantello rosso. Su di esso vi era ricamata una rosa senza gambo, la stessa incisa sul bavero del combattente decapitato minuti prima. Kanalagon non credeva nel destino. Lo odiava con tutto il cuore. Detestava l’idea che qualcun’altro avesse deciso per lui quello che gli sarebbe accaduto durante la sua vita, ma credeva nei segni, quelli che il suo Dio, guidandolo, gli poneva lungo il sentiero dell’esistenza. Sarebbe gravato solo su di lui la facoltà di coglierli e quello lo sembrava. Si tolse allora il mantello bruno con cui era coperto e lo depose a terra. Poi aprì il fagotto nel quale aveva deposto il corpo della bambina, la tirò fuori sforzandosi di guardarne il volto che aveva trafitto per ucciderla la seconda volta. Sperò di trovare un viso finalmente disteso nei lineamenti e finalmente in pace, ma non fu così. Era ancora prigioniero dei segni dell’innaturale rinascita che aveva subito e della bramosia di sangue che aveva distorto il viso fino al suo ultimo attimo di non-vita. Ai suoi occhi il suo gesto non l’aveva liberata. La prese con entrambe le braccia e la depose nel suo mantello bruno, poi richiuse e la coprì al meglio con la terra smossa che era ai lati. Si inginocchiò e recitò sottovoce la preghiera di commiato che aveva imparato al paladinato. Rialzandosi afferrò il lacero mantello rosso con la rosa e se lo getto sulle spalle. Aveva l’odore di morte e sangue e non era ideale per il freddo pomeriggio inoltrato della vallata ma gli sarebbe servito solo per poco, solo fino a quando non avesse trovato il colpevole e avesse fatto la giustizia che il suo Dio gli imponeva di portare tra i mortali. Aveva il sudario adatto per stendere un velo sulla morte innaturale che aveva causato. Alzò lo sguardo e perlustrò attentamente il cimitero. Alcune volte le chiese avevano una zona sotterranea dove riporre i morti, la cripta. Solitamente la sua l’entrata era ubicata all’interno della chiesa ed alcune di esse erano utilizzate dai sacerdoti come ultimo rifugio in caso di attacco di una fazione divina opposta. Le faide tra gli adepti delle divinità erano diffuse. Per questo motivo alcuni facevano un’uscita di emergenza dalla cripta e l’uscita era una delle tombe esterne all’aperto. Così gli aveva insegnato Sir Cook durante l’addestramento. Ma nessuna delle tombe sembrava un varco possibile. Decise allora di entrare nella chiesa. Fece di nuovo il giro ma stavolta dal lato del campanile, per vedere se riuscisse a scorgere qualcuno di vedetta, ma al suo passaggio non notò nulla, né percepì alcuna presenza. Così senza indugiare entrò. L’interno era molto scuro, ognuna delle tre navate era separata dalle altre tramite un’arcata di colonne, le finestre erano state sbarrate con assi di legno ricavate dalle panche interne. Si diresse verso l’abside rimanendo concentrato sulle presenze oscure intorno a sé. Tutte le colonne intorno all’altare e l’altare stesso erano ricoperti di parole scritte con inchiostro rossastro, forse misto anche a sangue, appartenenti ad una lingua che il paladino non parlava, ma il cui tratto cuneiforme gli ricordava la lingua abissale, parlata solo dai servi delle divinità più oscure e da alcuni demonologhi. Camminando in circolo, perlustrò l’area e notò otto lastre del pavimento divelte e due scale fatte di pietra pomice che scendevano nel sottosuolo. Le cripte erano due.

«Paladino…»

Maledicendo la propria disattenzione, mise la mano all’elsa della spada lunga che aveva fissato in cinta e si girò pronto ad attaccare ma si accorse che venivano incontro i quattro compagni lasciati indietro. Con un piccolo respiro di sollievo, accennò un sorriso, lieto di non essere più solo.

«Visto? È ancora vivo. Mi devi due pezzi d’oro Rotar. Mi puoi pagare quando vuoi, da adesso fino al ritorno in locanda. Ah, tieni Kanalagon, questo è il tuo spadone. L’ho raccolto e te l’ho portato. Perché l’hai lasciato a terra? Ma che razza di straccio porti sulle spalle? Anche se il rosso lo preferisco al marrone anonimo di prima. Io comunque non avevo dubbi che quattro stupidi zombi erano solo allenamento per te. Non sei ferito vero? E la donna? L’hai salvata?»

«No Turgul, non l’ho salvata. Ho fallito su tutti i fronti…»

Agladur lo interruppe:

«Io ritengo fosse una trappola. I non-morti che abbiamo fronteggiato io e il ranger sembravano essere coordinati e manovrati da una mente acuta. Credo che il sacerdote che ha creato tutto questo ci potesse vedere e forse ti ha attirato qui. Stavi per scendere da solo scommetto. Se sei ferito è meglio che ti curi io adesso. Quando scenderemo dovremo essere pronti a fronteggiare qualcosa di più ostico di qualche zombi e qualche scheletro. Se è un sacerdote come me, non attaccatelo. Ho bisogno di parlare con lui. Voi attaccate tutti i morti che vedete»

«Pfui! Parlare?! Pensi che uno che fa tutto questo sia disposto a parlare con te? E poi che gli devi dire?»

«Non ti riguarda ranger. Pensa a combattere!»

Turgul si mise tra i due, temendo che gli animi potessero accendersi e si rivolse deciso al sacerdote.

«No Agladur, Rotar ha ragione! Se vuoi farci rischiare la vita per i tuoi motivi personali devi dirci che vuoi chiedergli. Ho visto degli avventurieri rianimati come morti ambulanti. Io non voglio fare quella fine e non voglio dargli la possibilità di parlare. Lo brucerò vivo come lo vedo. A meno che tu non abbia una buona ragione…»

Agladur fissò con rabbia lo stregone. Ma dopo qualche secondo comprese che non aveva scelta.

«Credo che lui abbia fatto prigioniero mio fratello…»

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