7. Deliverance

Silenzio

Nessuno osava porre la domanda più immediata e logica dopo la rivelazione del sacerdote. La pensavano tutti, ma tutti tacevano. Se il suo intento fosse stato trovare il fratello perduto, auspicare la sua sopravvivenza in un campo di morte era cosa ardita. Gli sguardi degli avventurieri si incrociarono tra loro. Agladur intuì immediatamente il loro disappunto, la cosa non lo toccava più di tanto. Ma quando notò lo sguardo di Rotar qualcosa scattò nella sua mente, un irrefrenabile senso di fastidio. Dagli occhi del ranger traspariva lo stesso sguardo di un adulto che non ha il coraggio di raccontare ad un bambino che le favole in cui crede sono frutto dell’immaginazione e che non si avvereranno mai. Lui sapeva che suo fratello era ancora vivo, lo percepiva distintamente. Come era sempre stato dalla nascita. I gemelli avevano un legame che andava al di là del sangue e chi non aveva un gemello non poteva capire. Anche se Agladur avesse raccontato della loro nascita, di come fossero stati separati e lasciati uno alla chiesa del Dio del Castigo e l’altro alla chiesa del Dio del Sole e come avessero sempre saputo che una parte di loro stessi fosse da qualche parte, durante tutto l’addestramento, fino al giuramento del sacerdozio dove ogni parola del proprio superiore riguardo suo fratello gemello fosse nuova alla sua mente ma già nota al suo cuore, tutto ciò non avrebbe reso l’idea della convinzione che lui portava nell’animo. Il suo gemello era vivo ed era lì vicino. Perdere tempo a spiegare avrebbe accorciato le possibilità di salvataggio. La sopravvivenza era a rischio ogni secondo. Sull’altare della chiesa i simboli demoniaci erano stati incisi da almeno una settimana e, nonostante non fosse ferrato su alcuni di essi, era certo che avesse richiamato i morti a sé dopo averli destati dalla tomba. Ma era solo l’inizio. Tutte quelle persone che erano morte in seguito erano un sacrificio per un rito molto più grande. Di solito quei sacrifici terminavano con l’offerta maggiore, la più carica di significato. Un chierico come suo fratello era l’offerta ideale. I pensieri correvano veloci mentre Agladur fissava torvo Rotar. La voce di Turgul ruppe il silenzio.

«Ci hai convinto Agladur. Se tuo fratello è stato preso lo libereremo. Andiamo ora?»

All’improvviso un urlo. Un grido straziante di donna. Che durò per tutto il tempo che dei polmoni possano permettere. Poi di nuovo silenzio. Dopo quell’suono straziante avevano tutti le armi in mano, i nervi tesi, i muscoli contratti e gli occhi puntati sulla scala sinistra e sulla scala destra. Da quale delle due fosse provenuto lo strido nessuno l’aveva capito ma dalle profondità della scala destra emerse d’improvviso la fioca luce di una torcia, dall’innaturale luminescenza violacea. Poi dei suoni, un cigolio e un tintinnio metallico. Il paladino guardò lo stregone e il chierico che gli fecero un cenno della testa, subito dopo Kanalagon avanzò fino al varco nel pavimento. Rimase a fissarlo per una manciata di secondi poi si girò di nuovo verso i suoi compagni che attendevano informazioni da lui, ma li fissò sconfortato e scosse la testa. Non aveva captato nulla, non era entro la sua portata. La percezione aveva dei limiti e questo voleva dire che sotto le cripte erano profonde e ramificate. Si avvicinarono tutti intorno all’apertura.

«Vai tu per primo Kano» sussurrò Maeglin «puoi percepirli prima di tutti noi e sei quello che è più preparato per uno scontro frontale»

«Vado ma prima accendiamo una torcia»

Agladur mise una mano sulla spalla del mezzelfo «Non serve. Ci attende. La donna era un’esortazione a scendere. Vai»

Il paladino non attese oltre e cominciò a scendere i gradini per primo. Lo seguì a ruota il chierico, poi Turgul, Maeglin e Rotar. La scala si avvitava verso il basso in senso antiorario, scendendo per alcuni metri e aprendosi ad un lungo corridoio scavato nel tufo, con piccone a mano. Il tunnel, che nelle cripte prendeva il nome di ambulacro, era largo abbastanza solo per una persona e illuminato solo sul lato sinistro da alcune fiaccole appese con degli anelli al muro. Le fiamme, che ardevano sui legni, erano di natura magica. Non bruciavano la torcia e non emettevano fumo. La luce viola che scaturiva da essi faceva male alla vista e non riusciva a delineare la serie di aperture laterali che erano sul lato opposto, i loculi dei morti. Ad aggiungersi al senso di angustia c’era anche l’altezza bassa del corridoio che impediva di stare perfettamente eretti. Il gruppo si incamminò a passo lento, cercando di produrre il meno rumore possibile, in attesa di un segno che venisse dalla profondità della cripta e che facesse capire loro dove si trovassero i loro nemici. Dopo pochi metri si aprì a destra il primo loculo. Kanalagon ne scrutò l’interno con il suo potere ma non avvertì male e quindi, nonostante non ne vedesse minimante il contenuto lo ignorò e prosegui. Lo stesso non fece Agladur, dietro di lui. Prese la torcia da uno degli anelli di ferro con la mano destra e si fermò al loculo, illuminandolo con la malsana luce morata. Dentro ossa sbriciolate e pezzi di terracotta. La tomba era stata aperta dall’interno. Lo sguardo crucciato del sacerdote fu colto dai compagni dietro di lui e alimentò il senso di inquietudine e ansia. Le aperture dei loculi erano quattro. Tutte le tombe si presentavano alla stessa maniera, vuote. Dopo il quarto loculo, il tunnel pendeva verso il basso ripidamente, fino a condurre a due aperture contrapposte ai lati. Erano le entrate dei cubicoli, stanze a pianta quadrata dedicate di solito alla sepoltura di morti della stessa famiglia, gruppo o ceto sociale. Sull’entrata del cubicolo di destra vi era un simbolo dipinto sulla pietra: una spiga. Entrando il gruppo si sparse per i loculi presenti controllando se il padrone del posto vi fosse ancora dentro. Al centro del cubicolo vi era un piccolo altare con una scultura raffigurante un piatto traboccante di frutti della terra. In quel posto erano sepolti tutti gli officianti del culto della Benedetta. Il loro eterno riposo non era stato profanato. Tutte le coperture delle tombe erano intatte. Non trovando nulla di interessante il gruppo uscì ed entrò nel cubicolo opposto. Rotar si attardò qualche secondo a fissare la scultura dell’altare. Gli elfi avevano un sesto senso per scovare le vie nascoste dei labirinti. Se c’era nella zona una porta celata alla vista, un passaggio segreto o un interruttore particolare per una via secondaria, loro lo percepivano e difficilmente potevano sbagliarsi se ne avvertivano la presenza. Difficilmente ma qualche volta accadeva. Il suo sesto senso ora era sotterrato dalla cupa e pesante aria che stagnava negli ambulacri sotterranei. Si voltò ed entrò nel cubicolo successivo dove una fila di loculi era stata abbattuta e dietro di essi vi era un ambulacro nascosto che andava ancora più in profondità nel terreno. Qui l’altare e i simboli della Matriarca che Nutre erano stati cancellati con la forza e sostituiti con caratteri cuneiformi gli stessi che adornavano l’altare nell’abside. Le tombe erano tutte scoperchiate questa volta dall’esterno. I resti dei sacerdoti erano stati distrutti dall’irruenza dell’apertura. All’interno non c’erano oggetti di valore, solo i resti poco integri di un piatto di terracotta di forma ovale. Il paladino si soffermò sull’apertura sull’ambulacro, scrutandone l’interno e con sguardo risoluto si volse agli altri. C’era qualcuno e lo percepiva distintamente. Alzò due dita dall’elsa per indicare il numero delle aure maligne captate. La fine dell’ambulacro era illuminato e sembrava uno spazio ampio, così impugnò la spada lunga e si diresse con prontezza verso i nemici seguito a ruota dai compagni dietro di lui. Dopo pochi passi il terreno scomposto del tufo scavato divenne liscio e compatto ma nella foga dell’assalto non lo avvertì. Ad un metro dall’apertura si sentì un leggero “click” dal pavimento e una lastra di pietra scese velocemente chiudendo l’apertura appena varcata da Kanalagon, Agladur e Turgul, quest’ultimo passato con uno slancio agile prima dell’inesorabile ghigliottina lapidea. Non ci fu tempo per maledire l’avventatezza e la disattenzione con cui erano stati separati da Rotar e Maeglin, due scheletri erano ai lati dell’apertura con le falangi ossute sulla schiena del sacerdote e del paladino. Colti di sorpresa entrambi caddero a terra con i non-morti avvinghiati ferocemente su di loro. Turgul però era rimasto libero da nemici e, per la fortuna degli atterrati, pronto alla battaglia. Chiuse gli occhi per un brevissimo istante e il mondo che lo circondava divenne muto. Un battito del cuore, un respiro profondo e le parole vennero alle sue labbra. Aprì di nuovo gli occhi, la magia gli permeava tutto il corpo, nasceva dal suo petto, arrivava alla mente per poi tornare alla bocca.

« S a i g h e a d   D r a í o c h t a »

La sua voce era diversa, greve e gutturale, come se fosse stata pronunciata da un uomo molto più grande e con l’ampiezza toracica di un gigante delle tempeste che urla in una tormenta di neve. Da due dita emerse un dardo luminoso di luce azzurra che serpeggiò nell’aria e si conficcò nella cavità oculare del cadavere animato che opprimeva Kanalagon, facendogli esplodere il cranio. Lo scheletro che schiacciava il sacerdote si alzò in piedi per assalire lo stregone che lo stava già seguendo con lo sguardo. Riuscì ad anticiparne l’attacco mettendo il palmo aperto davanti a sé, rivolto verso il nemico.

« C u m h d a c h   D r a í o c h t a »

Uno scudo di pura forza si materializzò istantaneamente davanti a Turgul deviando il colpo dell’assalitore quel poco necessario per lasciarlo incolume. Il sacerdote di mise sul ginocchio e raccogliendo l’arma da terra assestò un colpo secco al ginocchio dello scheletro che rovinò a terra sul fianco sbattendo contro un altare centrale presente nella stanza. Kanalagon sfruttò la situazione calando un fendente dall’alto e staccando il cranio dal collo al non-morto. Si guardarono tutti intorno. Erano in una stanza quadrata dal pavimento lastricato, dal soffitto di due metri e mezzo, illuminata agli angoli e non c’erano nemici intorno a loro. Il paladino si gettò subito sulla porta di pietra che divideva lui e gli altri due compagni dal ranger e dalla barda. Infilò la punta della spada sulla soglia in basso e cercò di fare leva per spingere di nuovo verso l’alto la pietra ma questa si scheggiò solamente non muovendosi minimamente. Batté il pugno contro sentendo che lo spessore di roccia era ragguardevole. Appoggiò l’orecchio per sentire se giungesse qualche suono dai compagni.

« … ccupare …. ia … sa … ada … ero … »

Maledisse il suo impeto. Era colpa sua se erano stati divisi.

«Su Kano, lascia stare, troveranno un modo per ritrovarci. Non sarà l’unica via per venire qui no?»

Una voce roca e graffiante rispose allo stregone da un lato della stanza

«Invece sì… incantatore… si passa solo da lì… coff..»

Sul lato opposto della porta-trappola c’era un arco non illuminato. I tre avanzarono pronti alla battaglia. Turgul si avvicinò per primo cercando di penetrare l’oscurità che era troppo densa. Prese allora una pietra dalla cinta e stringendola in mano pronunciò:

« S ò l a s »

La pietra brillò di luce bianca, la pose in un incavo nella lancia corta che imbracciava e tese la punta per illuminare la zona. Delle sbarre chiudevano l’entrata ad un altro cubicolo. Dietro a terra c’erano due uomini visibilmente provati e vestiti con pochi stracci ricavati da abiti funerari.

«Ti prego incantatore… ci bruciano gli occhi… non vendiamo che luce viola da giorni…»

Agladur si avventò alle sbarre di metallo per vedere con esattezza le sembianze dei due prigionieri «Chi siete? Perché siete imprigionati? Siete avventurieri venuti per il Keldorn?»

Erano due uomini. Uno aveva un filo di barba incolta causata dalla prigionia forzata, dietro cui si notavano dei baffi corti e affilati che si infoltivano. Gli occhi castani, piccoli, incavati e vicini, sotto sopracciglia curvate e una fronte pronunciata. Una corporatura robusta si delineava sotto il vestito di lino che era troppo piccolo per contenerne le forme. I capelli erano rossi, sporcati dalla terra e dal fango incrostato col sangue. Una ferita rimarginata sulla testa era ben visibile. Dietro un individuo più minuto con una coda di capelli neri raccolti dietro la nuca, la barba solo a chiazze ne indicava l’acerba età. Era piegato su di un fianco, accucciato e infreddolito dagli insufficienti abiti che non potevano proteggerlo dall’umidità penetrante della cripta. L’uomo dai capelli rossi si coprì gli occhi e si avvicinò alle sbarre.

«Siamo due avventurieri caduti in trappola prima di voi… Io sono Zoran, paladino errante e… lui è il mio compagno Nirgul. Siamo giunti qui con altri che… non hanno avuto la stessa fortuna nostra… coff, coff… di rimanere le ultime vittime sacrificali»

«Siete fortunati Zoran e Nirgul, vi libereremo noi. Vero ragazzi? Con due in più lo scontro sarà più facile per noi…»

«Avete visto un prigioniero elfo? Come me. Guardami paladino! Apri gli occhi! C’è un elfo in questa cripta?» Agladur era impaziente di ottenere informazioni.

«Non ho visto altri prigionieri… Ho visto portare altre persone nella sala principale e li ho sentiti urlare, nessuno di loro era elfo. E qui siamo solo noi due. Forzate i cardini. Dovreste riuscire a liberarci»

Kanalagon infilò la punta della spada tra i tondini di ferro che si infilavano nel tufo e scavò la tenera pietra. Il sacerdote accanto a lui colpì secco due volte sui cardini con la sua morning star, sconquassandoli. Poi afferrò con vigore le sbarre e, con l’aiuto del paladino le tirò a sé aprendo un varco sufficiente per poter permettere ai due prigionieri di passare.

«Zoran datemi la mano, vi aiuto. Io sono Kanalagon, un paladino errante come Voi. Mostrateci la via dove venivano portate le vittime. Voi potete aspettarci qui»

«Certo compagno… voi siete giunti dal varco di fronte al nostro cubicolo-prigione. A destra… coff…coff.. venivano portate tutte le vittime. Sulla porta c’è quello strano simbolo a “V”. Non sono mai entrato ma ho contato il tempo che ci mettevano tra passare davanti a me e cominciare a urlare di terrore. Il percorso è lungo»

«E a sinistra Sir Zoran? Io sono Turgul, lo stregone supremo e invincibile»

«Molto piacere. A sinistra, dove c’è il simbolo della spiga sull’arco, sono state portate le nostre armi e le nostre armature escluso la mia spada lunga che è nella cinta del vostro compagno mezz’elfo»

Indicò la spada lunga che Kanalagon teneva nel fodero.

«Questa? Ma io l’ho tolta da un morto errante fuori da questa chiesa. Se è vostra ve la rendo»

«Al morto errante avete tolto anche il mantello?»

«Sì. Era un vostro compagno?»

«Era un cavaliere… coff… coff… un amico. Gliel’avevo data quando perse la sua. Potete tenerla ma ad una condizione. Dovete decapitare il mostro che ha fatto tutto questo»

Poi si girò e sostenne il suo compagno, che claudicante si stava dirigendo verso il cubicolo a sinistra. Nirgul, che fino ad ora non aveva mai parlato, si girò in direzione di Agladur

«Sacerdote, in verità un elfo io l’ho visto…»

«Dove??»

«Uno solo. L’unico che ho visto entrare e uscire da qui. Non ho visto mai il suo viso, ma sono sicuro fosse un elfo…»

«Dove l’hai visto?»

«In fondo all’ambulacro. È il nostro carceriere. Il K’Hell Dork è un elfo»

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