La neve era fitta, il vento implacabile. Non era possibile vedere oltre il proprio braccio, ma Òron riusciva a seguire il sentiero ferrato con la determinazione e la stamina degli uomini del Regno del Nord: una landa inospitale e sterminata di campi di ghiaccio mai del tutto esplorata. Una catena montuosa colossale bloccava i venti artici facendo ghiacciare tutta la valle e la pianura sottostante, impedendo che il “Soffio Bianco”, il vento da nord, arrivasse alle floride pianure rigogliose degli altri tre regni di Daroland, popolati da circa trecentomila anime: l’Est, che includeva la capitale Daroking; l’Ovest, con la grande Dis; il Sud, con Città dell’Ombra. Tutti vivevano floridamente e traevano il loro sostentamento dall’agricoltura, dall’allevamento e dal commercio con i reami adiacenti. Il Nord contava trecento anime in tutto e si estendeva su un territorio grande come la somma degli altri tre. Vi imperversavano ghiaccio e vento incessante, e la rada flora che riusciva a crescere solo nelle zone più riparate era costituita esclusivamente da conifere, betulle, larici, licheni, muschi e bassi arbusti. Le stagioni del Nord erano divise nel” Primo Inverno”, quando a Daroking era estate, nell’”Inverno Grigio” quando a Daroking era primavera o autunno, e nel “Profondo Inverno”, o “Inverno Nero”. Questo era così freddo che a ogni respiro piccoli cristalli di ghiaccio entravano nel corpo e laceravano i polmoni fino a quando non si iniziava a tossire sangue. Il congelamento polmonare portava alla morte in meno di quindici minuti. Un fazzoletto di stoffa imbevuto di grasso animale proteggeva gli uomini del Nord nella respirazione all’aperto. Lo stesso grasso con cui era necessario ricoprire le poche parti di pelle scoperta per evitare le lacerazioni del Soffio Bianco: segni che contraddistinguevano tutti gli stranieri che arrivavano al Nord per la prima volta. Solo un uomo su venti torna al sud e di questi solo uno su cento torna al nord una seconda volta. Il passaggio che divideva il Nord dagli altri regni era pertanto percorso quasi esclusivamente da uomini del Nord che scendevano nei regni sottostanti solo per estrema necessità e che ritornavano nella terra natia per evitare il soffocamento causato dall’aria che per i loro standard era troppo calda e irrespirabile. Nelle Yurte, le abitazioni nordiche costruite con legno di betulla e ricoperte con pelli, le temperature non superavano mai di troppo il punto di congelamento dell’acqua e al loro interno la popolazione del Nord viveva quasi nuda, coperta solo il minimo per temprare il corpo alle estreme condizioni dell’esterno. Questo aveva portato l’esiguo numero di uomini ad avere un innaturale longevità: un uomo di settant’anni aveva la stessa tempra e resistenza di un cinquantenne del sud, e la forza di un trentenne.
Òron aveva solo trent’anni e nella sua salita era incorso in tutti i tipi di fauna del posto: orsi, volpi artiche, renne, gufi, linci, zibellini e lupi. Tanti lupi. Il passaggio verso sud ne era stracolmo per i canoni nordici. Attaccavano qualsiasi cosa si muovesse ed erano grandi. Alcuni avevano le dimensioni di un pony del sud. Òron era molto bravo a scoraggiare l’attacco da parte di un branco. Quando il primo lupo gli si fermava davanti facendo da esca, mentre il resto del branco si accingeva ad attaccarlo alle spalle, lui gli si avventava velocemente contro uccidendolo e gettandone la carcassa ai compagni che, intimoriti dal sangue del fratello, desistevano dal continuare l’attacco. Cacciare piccoli animali era più sicuro e meno dispendioso di una preda agguerrita di cento chili. Solo una volta dovette fronteggiare un intero branco, ben dodici lupi. La parte più difficile non fu difendersi ma trasportare tutti i corpi al villaggio prima che il Soffio Bianco li congelasse. Qualsiasi cosa che venisse uccisa andava mangiata. Nel passato, quando il Regno del Nord aveva sfiorato l’estinzione della popolazione, era stato ammesso anche il cannibalismo. Ora era proibito perché la fauna, per quanto esigua, era sufficiente alla sopravvivenza di tutti, e tutti erano oculati nel dispendio di risorse. Proprio per questo i visitatori erano malvisti mentre i viaggiatori verso sud, come Òron, invece godevano di una sorta di stima, anche se non era proprio ‘stima’ in senso stretto: infatti qualora avessero incontrato animali, li avrebbero portati al villaggio; se invece fossero morti durante il viaggio c’era più cibo per gli altri e non si sarebbe sprecata legna per erigere una pira funeraria.
Di solito chi si dedicava all’esplorazione e ai viaggi erano i membri esclusi dalle cinque grandi famiglie del Nord o coloro che non ne facevano parte perché nati da rapporti fuori dal matrimonio. I Tug erano i conciatori di pelle, i Vog i fabbri, i Lamuth i taglialegna, i Keth i cacciatori. Infine, gli Ostiak che per ereditarietà erano coloro che comandavano. Non erano stati scelti. Semplicemente avevano avuto il carisma di imporsi e la saggezza di far sopravvivere e prosperare, per i canoni nordici, la popolazione. Gli Ostiak crescevano con l’istruzione adatta e il retaggio del governatore precedente. La grande capitale Daroking e il Re non entravano nel merito dell’elezione del governatore, o “Re del Nord” come lo chiamavano tutti gli abitanti di Daroland. Quando un governatore moriva, un paggio scendeva nel caldo sud a portare la lettera con il nuovo sigillo e il nuovo nome. Il Re di Daroland ne approvava l’elezione e rimandava il paggio al Nord con un dono. Di solito cambiavano tre Re per ogni governatore nordico, il quale non si dava la briga nemmeno di impararne i nomi.
Un Re che vive nel caldo e rigoglioso sud non è un uomo ma solo un bambino cresciuto nella debolezza che il troppo cibo e il sole rovente hanno marchiato come inadeguato al Nord.
Tutta la popolazione veniva cresciuta col disprezzo per il sud. Tutti tranne i Tuvan, gli esclusi dalle cinque grandi famiglie. Òron era un Tuvan: sua madre aveva lasciato il marito Lamuth ubriacone e violento e lo aveva generato con un Tuvan. La fuga d’amore era durata poco meno di un mese, perché dopo quel periodo furono trovati e al Tuvan fu amputata la mano destra e la donna fu riportata all’ovile dove durante il parto perse la vita e il pargolo fu riportato a crescere con il Tuvan mutilato. Nessuno uccideva un fratello del Nord, di qualsiasi famiglia fosse, neppure un reietto. E nessuno cresceva con l’odio per un torto subito. E così era stato cresciuto anche Òron. non aveva mai cercato vendetta verso la famiglia della madre, nonostante sapesse esattamente come fossero andate le cose. Semplicemente non c’era l’energia e le risorse necessarie per potersi vendicare. Nel Nord era importante contare su tutti, anche su quello che in un altro regno del sud sarebbe potuto essere visto come l’acerrimo nemico. Il numero faceva la differenza tra la vita e la morte ed essere emarginati e poco considerati, per un Tuvan, rendeva ancora più tolleranti. Proprio per questo spirito di tolleranza si sviluppava una sorta di curiosità verso il caldo sud e verso i popoli che vi abitavano, al punto da trasformare quasi tutti i Tuvan in avventurieri, paggi o esploratori. E nonostante questi tre mestieri avevano il più alto tasso di mortalità, la popolazione Tuvan era pari di numero alla somma di tutti i membri delle grandi famiglie.
Òron si distingueva tra i membri del proprio clan. Due metri di altezza e l’esorbitante muscolatura, innaturale per gli abitanti del Nord, la cui dieta non era così abbondante di proteine da rendere possibile mantenere una muscolatura degna di nota. Ma la natura era stata generosissima con lui, tanto che aveva sviluppato, nel corso del tempo, una tecnica di combattimento guerriera con una spada che di solito veniva utilizzata dai mezzo-giganti e dai troll. A prima vista sembrava lentissimo e prevedibile, inoltre la sua lama non aveva filo. Ma quando imbracci e muovi con forza e velocità una lama lunga quasi due metri che pesa come un uomo, non hai bisogno del filo. Se l’acciaio ti prende sei diviso in due o comunque impossibilitato a continuare la battaglia. Solo un uomo del Nord aveva assaggiato la lama di Òron. Era un pazzo membro dei Tug che dopo una partita persa a dadi, uccise in una locanda il proprio avversario e minacciò tutti i frequentatori del locale. Quando un uomo uccide un fratello è istantaneamente condannato a morte da chiunque sia presente al fatto. Òron fu il primo e unico a intervenire, emettere sentenza e a sventrare tavolo, sedia e pavimento insieme al corpo del Tug colpevole. Nessun Tug si lamentò mai con la sentenza di Òron. Chi sbaglia paga l’acciaio. Era un altro motto del Nord insieme al più famoso e all’unico conosciuto in tutto il continente:
L’inverno nel nord non avrà fine neanche dopo l’ultimo giorno del mondo.
Il motto era utilizzato anche nella chiusura dei brevi riti matrimoniali poiché nella lingua arcaica dei primi colonizzatori del Nord, la parola “Amore” e “Inverno” era molto simile. Òron, se lo ripeteva tra sé e sé talvolta. E come lui anche gli altri uomini del Nord. Trasmetteva un senso di inviolabilità e continuità del proprio habitat e dava la sicurezza che nulla sarebbe mai cambiato. Lui invece se lo ripeteva sempre durante il suo viaggio di due giorni che compiva a cadenza mensile verso il valico per le regioni calde. Percorreva la foresta di conifere subito fuori Norgod, l’unica città settentrionale, nonché capitale del regno, seguiva il sentiero tra le valli fino alla ferrata che portava direttamente in cima al “Picco del Vento”, per arrivare dall’unica donna che riusciva a fargli provare calore senza fastidio. Froga, la Strega Bianca. Non apparteneva a nessuna delle cinque famiglie del nordiche, né ai reietti Tuvan. Che ne sapesse Òron, era lì da sempre e qualcuno andava da lei per richiedere i suoi servizi da fattucchiera. Aveva l’aspetto di una ventenne, magra, con i capelli castani lisci e lunghi, gli occhi castani, le labbra affilate e piccole, il suo naso non era pronunciato ma le froge larghe facevano spiccare la sua presenza sul suo viso. Òron la trovava ammaliante. Molti dei suoi fratelli Tuvan sostenevano che lei l’avesse sottomesso con qualche pozione, ma lui sapeva che non era affatto così. Benché lei tollerasse le sue visite, non mostrava mai un sorriso né dava a vedere di essere contenta di chiacchierare con il muscoloso guerriero. I suoi fratelli avevano cercato di convincere Òron che l’aspetto vero della Strega fosse quello di una vecchia decrepita e che alterasse le sue sembianze in una giovane per tenerlo a sé. Tutto ciò a Òron non importava minimamente. Quello che vedeva era reale, che fosse magia o meno. Avendo familiarità con l’acciaio, le pelli e il ghiaccio, la magia non era qualcosa su cui si soffermasse a pensare o a comprendere. Non faceva granché caso neanche al passatempo preferito di Froga: trasformare gli avventurieri provenienti dal Sud in rane. Òron le aveva chiesto perché non scegliesse di trasformarli in maiali, visto che la Strega si cibava degli avventurieri dopo averli trasformati. Lei le aveva sempre detto che il sapore di qualsiasi animale al confronto delle rane era disgustoso ma lui non aveva mai compreso il concetto. Per un uomo nordico, venti chili di carne e grasso erano meglio di venti grammi, qualsiasi sapore essi avessero. Ma anche questa stranezza per lui era di poco conto rispetto al suono della sua voce e all’odore della sua pelle. Qualsiasi cosa fosse presente nella caverna dove abitava era per lui una cosa marginale rispetto a Froga. Sapeva che il suo amore non era corrisposto, nonostante il guerriero non avesse fatto nulla per esternarlo. Nonostante ciò Òron faceva il suo viaggio tutti i mesi con il solo desiderio di vederla. Ormai era quasi giunto al varco d’entrata: una fenditura verticale come un occhio tra due appigli della ferrata. Come sempre il guerriero si tolse lo spadone dalla schiena e lo fece passare all’interno del varco, poi entrò lui. Passato il varco il corridoio rimaneva poco più largo e non permetteva a due uomini di media statura di passare uno al fianco dell’altro, per lui era quindi un passaggio per cui doveva camminare accucciato e con la spada davanti a sé. Percorreva una trentina di metri tortuosi nel completo buio, ma sapeva oramai a memoria tutte le curve e le ostilità della roccia. Alla fine del corridoio naturale si apriva una stanza circolare piena di vapore caldo, che fuoriusciva da un’insenatura del pavimento; l’ambiente era ostile per qualsiasi uomo del nord. Anche chi richiedeva i servigi della Strega non rimaneva per più di mezz’ora, perché era una tortura incredibile. Òron però riusciva a stare dentro per oltre due giorni, dormendo sulla pietra, senza bere né mangiare. Entrava e si sedeva sulla solita pietra nella totale oscurità aspettando che la strega venisse a incontrarlo. Solitamente ci impiegava due o tre ore, sempre nella speranza di farlo desistere e tornare indietro nella sua città natale, naturalmente invano. Òron come al solito si sedette e con pazienza iniziò a spogliarsi delle pelli e degli indumenti oramai superflui nel calore e nell’umidità della grotta dovuti a naturali corsi d’acqua sulfurea che risalivano dall’interno della roccia.
«Ti stavo aspettando»
Le fredde parole di Froga lo destarono d’improvviso dalla concentrazione con cui cercava di sciogliersi i lacci delle pellicce di lupo del corpetto, facendolo trasalire:
«Froga, siete già qui?!»
Una fioca luce giallastra avvampò improvvisamente dalla cima del bastone liscio e perfetto della strega, illuminando l’antro della grotta. Il suo viso era teso e duro. Più del solito. Fece cenno al guerriero di seguirla e senza attendere si girò e andò a passo deciso verso il piccolo corridoio nella roccia che si apriva dalla parte opposta dell’antro. La grotta era ampia pochi metri e aveva quattro aperture naturali segnate da quattro simboli runici diversi. Òron non sapeva leggere quei simboli, li aveva quindi ribattezzati Falce, Ascia, Martello e Luna poiché, con molta fantasia, era possibile immaginare qualche similitudine con essi. Il corridoio della Falce portava ad una sala più grande dove Froga faceva i suoi rituali magici e dove trasformava gli avventurieri ingenui in rane, conservandoli in un laghetto naturale al lato di essa. Il laghetto era sempre popolato da almeno una cinquantina di rane e il suo bordo era costituito dalle ossa degli anfibi. Il corridoio dell’Ascia portava ad alcune grotte più in alto che conducevano ad un valico tra le montagne e ad una strada che Òron era riuscito a percorrere solo a metà, per l’eccessiva veemenza del Soffio Bianco, e al cui termine, gli aveva detto Froga, c’era un accesso a una antichissima città sotterranea di elfi scuri. Il corridoio del Martello portava invece nelle profondità della montagna. Le temperature aumentavano fino a rendere l’aria così calda da bruciare le narici, anche agli abituati uomini del sud. Òron non era riuscito a percorrere più di un centinaio di metri e a visitare quattro antri naturali costituiti da stalattiti di incredibile bellezza. Il corridoio della Luna invece non lo aveva mai percorso. Da lì emergeva sempre la strega. Òron aveva pensato molte volte che portasse alle sue stanze private e, nonostante l’incredibile curiosità e il suo senso di avventura, non aveva mai azzardato neanche a chiedere di poter visitarlo. Froga aveva appena varcato la soglia dell’arco con la Luna incisa e la velocità con cui la luce svaniva nelle profondità del cunicolo non diedero il tempo al guerriero di poter tentennare. Lasciò la spada dove era e la seguì, mentre camminava si slacciò velocemente tutti gli indumenti che poteva rimanendo con una maglietta smanicata di pelle di renna, i pantaloni e gli stivali. Il tunnel nella roccia proseguiva verso l’alto curvando sempre nella stessa direzione per una trentina di metri poi proseguiva quasi linearmente per altri duecento. La distanza che lo separava da Froga si accorciò grazie al suo passo lungo e veloce. Le arrivò dietro quasi subito e rimase in silenzio tutto il tempo fino alla fine del percorso. Sapeva che la strega non rispondeva quasi mai a domande e quesiti che non fossero riferite alle sue capacità di veggente e fattucchiera e lautamente pagate. Era lei che iniziava e chiudeva qualsiasi discorso quindi Òron rimase in attesa di avere informazioni in merito all’inaspettato e veloce incontro. Quando arrivarono alla fine del cunicolo, emersero sul dorso della montagna in un valico più a est rispetto a quello praticato per andare a sud. Intorno a loro la neve non permetteva di vedere nulla a parte la Mano dei Ghiacci: la grande torre del Nord, ricoperta di neve cristallizzata che catturava la luce del sole oltre le nuvole e, con le sue mille facce levigate, la acuiva e rifrangeva in tutte le direzioni. Si poteva vedere alcune volte anche dalla costa del sud, nelle giornate più terse, come una piccola stella nel cielo. Mentre Òron fissava la mano cercando di capire se aveva le famose dita dirette al cielo, come diceva la leggenda, la strega si girò e gli sussurrò:
«Dobbiamo attendere solo qualche minuto. Non appena calerà il sole, lui verrà e ti parlerà»
«Chi? Se mi è concesso sapere»
«Il tuo ultimo vero Re»
«Skrannar, l’Ascia Volante? Ma è morto!»
«Skrannar era un ubriacone che difficilmente riusciva a percorrere più di cento metri a piedi. Se quello lo chiami Re…»
«Barbug, il Lupo Bianco allora? Ha ucciso un lupo delle dimensioni di un orso polare. Quello lo potrei chiamare Re. Ma anche lui è trapassato»
«La pelliccia di Barbug era proprio un orso polare e la ricevette in eredità dal padre, che la ricevette a sua volta, come dono del Re del Sud, al suo insediamento. Ma lasciamo stare, puoi elencarne a memoria quanti ne vuoi, nessuno di quelli che conosci è mai etichettabile come Re del Nord. Sto parlando di Re Erik»
«Ma il Re Erik è vissuto centinaia di anni fa. Dovrebbe riposare nel Regno dei Guerrieri, al di là del Soffio Bianco e del confine del mondo!»
Il Soffio Bianco si acuì bruscamente. Un paio di sferzate provenienti da Ovest colpirono il guerriero che maledisse l’essersi privato delle sue calde pellicce. Poi una voce fredda e lontana interruppe le sue imprecazioni facendolo trasalire per la seconda volta in poco tempo:
«È proprio lì che vorrei andare, Òron, figlio del Nord. Per questo il tuo Re ti chiama»