21. Under The Sign of The Thunderbolt

L’aria era gelida, il vento soffiava forte da ovest facendo cadere la pioggia sul suo viso. L’acqua imperlava la sua incolta barba castana, rendendo luminose le sfumature bionde colpite dai raggi della luna piena che a tratti compariva tra le rapide nubi. Il mantello nero di lana degli elfi scuri lo riparava dal freddo ma la rigida temperatura, che preannunciava l’imminente arrivo dell’inverno, passava attraverso la cotta di maglia vermiglia con il simbolo reale battuto a ferro. Il cavallo nero era stanco, i suoi zoccoli affondavano nel fango argilloso della strada battuta. Ad ogni chilometro il paladino gli dava una pacca sulla base del collo e gli sussurrava: «Manca poco bello, tra poco arriveremo». Erano già due ore che lo rincuorava e si dava forza così. La cavalcata era stata la più dura della sua vita: condurre il cavallo con un solo braccio era più difficoltoso poiché, nonostante si reggesse stabile sulle gambe, avere un solo arto lo costringeva a tenere l’equilibrio tenendo il corpo leggermente ruotato verso l’arto funzionante, cosa che gli aveva procurato un mal di schiena pari al dolore causato dal braccio mancante. Mentre si guardava attorno alla ricerca di un pezzo di strada familiare, scorse una piccola luce davanti a sé: una flebile lanterna brillava nella notte e lui vi si diresse ineluttabilmente come una falena in cerca di riparo. Pochi minuti e la vide ingrandirsi sempre di più fino a quando non si ritrovò a pochi metri dalla palizzata di legno che delimitava il campo di addestramento del paladinato di Mallord. Dietro di essa svettava il campanile della chiesa del Dio del Fulmine. L’euforia di essere arrivato gli diede una sensazione di ebrezza tale che decise di giocare uno scherzo alla sentinella, quindi estrasse la spada e, giunto a ridosso del cancello chiuso per la notte, picchettò sul battente, a ridosso della piccola fessura, dove l’attendente di guardia sarebbe comparso per sincerarsi chi fosse il notturno ospite in attesa di entrare. Aveva pronta una battuta spiritosa in risposta alla domanda “Chi va là?”, che si attendeva da lì a poco: un minaccioso “Sono Sir Pike, capitano delle guardie reali, aprici subito!”. Avrebbe fatto sussultare anche il più coraggioso dei suoi confratelli sentire quel nome come capitano. Ma passarono diversi minuti e il freddo della pioggia gli fece riemergere la stanchezza smorzando l’entusiasmo iniziale.

Perché non c’è nessuno di guardia?

Si appoggiò due dita sui denti e fece due lunghi e acuti fischi, seguiti da un: «APRITE!» gridato a pieni polmoni, nel tentativo di sovrastare lo scrosciare della pioggia che imperversava. Dopo pochi istanti sentì il rumore di stivali che affondavano nel fango e la feritoia si aprì: gli occhi castani di John, l’attendente di Sir Raynolds, lo fissarono per qualche secondo. Evidentemente non lo riconobbe perché, con voce insicura, chiese:

«Chi va là?»

«John, sono Kanalagon. Sono tornato. Di grazia, apri che ho bisogno di asciugarmi».

La feritoia si chiuse, poi seguirono rumori metallici e l’anta sinistra del cancello si aprì. Il mezzelfo spronò il cavallo a percorrere gli ultimi metri sotto le intemperie, poi si girò verso il giovane allievo del paladinato e indagò:

«John, perché non c’è nessuno di guardia?»

«Kanalagon, mi scusi, non l’avevo riconosciuta con la barba e con quella strana armatura! – il ragazzo richiuse velocemente il cancello e rimise l’asse di legno – Siamo rimasti in pochi: sono partiti tutti verso Dis per una missione. Se scende dal cavallo penserò io a strigliarlo e rifocillarlo».

Il paladino scese goffamente reggendosi solo con la mano destra e per poco non cadde all’indietro.

«Siete stanco vedo, andate dentro. Ci sono Maeva e Sir Wyatt nella sala comune» John non attese risposta e con un sorriso stanco diede il suo commiato portando l’equino alle stalle.

Kanalagon percorse a passo veloce l’accampamento fino all’edificio principale: una lunga struttura a pianta rettangolare la cui entrata era sul lato est. La fatiscente porta di legno era come l’aveva lasciata, con assi di legno a coprire i fori creati dalle intemperie. La spinse ed essa scricchiolò con il solito rumore sgradevole. Alla sua sinistra un piccolo mobile ospitava una candela, la cui flebile luce illuminava il lungo corridoio sui cui lati si aprivano le molte porte degli alloggi dei seguaci del Dio del Fulmine, che soggiornavano nella struttura. Dopo le venti stanze il corridoio terminava sulla porta della fucina, da cui filtrava una luce. Kanalagon si fermò a pochi passi da essa e decise che avrebbe parlato subito con Grimes, anche se aveva più voglia di vedere un’altra persona. Ne aveva preso consapevolezza mentre cavalcava ritornando lì: gli mancavano i suoi occhi azzurri e i suoi capelli biondi e lisci. Sentiva da dietro la porta il martellare incessante del fabbro sull’incudine, bussò tra un colpo e l’altro e poi, senza attendere risposta, aprì la porta ed entrò. Grimes aveva il viso arrossato dal calore e dallo sforzo, la sua barba riccia e ispida era imperlata di sudore. Non appena lo vide lasciò cadere il martello con lo sguardo sorpreso, seguito da un’espressione gioiosa che gli si dipinse sul volto: «Per gli Dei dei nani! Quando sei tornato?», si strofinò le mani sui pantaloni di cuoio marroni e venne incontro al mezzelfo, il quale alzò la mano destra facendogli segno di fermarsi:

«Sono appena arrivato, per cortesia niente abbracci o pacche sulle spalle: mi reggo a stento sulle gambe. Sei il primo che incontro, non ho ancora visto gli altri»

«Come vuoi, paladino, ma non voglio darti delusioni: non avevo certo intenzione di abbracciarti!» Grimes si fermò ad un metro e gli tese la mano. Kanalagon accennò a un sorriso e gliela strinse «Meno male che mi hai teso la destra, se avessi fatto l’opposto avrei dovuto maleducatamente rifiutare».

«Perché? L’hai persa la sinistra?» l’uomo rispose con una battuta.

Kanalagon scoprì il moncherino da sotto il mantello nero.

«Dio giusto e misericordioso! Ti fa male?» il fabbro aveva il viso atterrito ma si avvicinò a guardare da vicino «posso farti un braccio ornamentale se vuoi. Almeno sembri normale!»

«Ornamentale?» il paladino alzò un sopracciglio per il disappunto «Io ci devo combattere con il braccio sinistro. Mi devi costruire qualcosa che sorregga uno scudo o, all’occorrenza, qualcosa per usare un’arma a due mani. Sono sicuro che non mi deluderai…»

«Ti deludo subito invece, la cosa non si può fare» Grimes scosse la testa con vigore.

«Come ‘non si può fare’? Mi ricordo di Sir Torn: aveva un braccio di metallo ed era un paladino errante» il mezzelfo incalzò il fabbro.

«Sì, certo! Infatti, è morto in battaglia! Kano, ascoltami: non si può fare. O te lo fai ricrescere come le code di lucertola, oppure scordati di combattere. Qualsiasi legaccio possa farti, al primo colpo volerebbe via. Il braccio che sorregge il peso dello scudo riceve degli urti incredibili, dovrei metterti un perno nell’osso per poterlo rendere possibile…» il fabbro cominciò a parlare gesticolando e camminando intorno all’incudine.

«Beh, mettimelo! Hai visto che se vuoi ce la puoi fare?» Kanalagon fece spallucce.

«Senti, sarai pure un paladino immune alle malattie e con una soglia del dolore invidiabile, ma io ho visto che fine fa il metallo nel corpo di una persona. La carne va in cancrena e diventa puzzolente come un cadavere. Poi bisogna amputare ancora più in alto. Un giorno è venuto un cerusico a chiedermi gli attrezzi per fare una cosa del genere. Ho dovuto anche aiutarlo con la sega, una scena raccapricciante. Mi ha raccontato quello che era accaduto. Quindi ti ribadisco che non si può fare. A meno che…» l’uomo barbuto si fermò incrociando gli occhi verdi del paladino.

«A meno che?»

«A meno che non usi l’argento nanico. Il cerusico mi disse che è l’unico metallo che impedisce il proliferarsi della cancrena. Ma ti dico già da subito che non ho argento nanico e non posso lavorarlo! Si lavora solo nelle loro fucine vicino alle miniere di estrazione! Quindi non posso aiutarti» Grimes fece cadere le braccia penzoloni lungo il corpo facendo il broncio.

Kanalagon rifletté un attimo e gli vennero in mente tutti i tentativi di Sir Raynolds di mandarlo dai nani di Kar ‘N Kar per apprendere le loro arti della forgiatura dei metalli, quindi con un sorriso ammaliante propose:

«Benissimo, vorrà dire che verrai con me dai nani e imparerai a farlo! Sir Raynolds sarà contento»

«Nooooo, non ci penso nemmeno» il fabbro scosse vigorosamente la testa.

«Va bene, non devi accettare subito. Ti concedo un giorno. Nel frattempo, ho un’altra richiesta: ti ricordi quella cosa che ti avevo detto… la notte in cui ci siamo ubriacati con l’acquavite che ci diede Sir Gary?» il mezzelfo lo disse avvicinandosi con un po’ d’imbarazzo.

«Sì che me lo ricordo, ero ubriaco mica sordo» Grimes sorrise sornione.

«Ecco… non è che potresti…»

«Già fatto! Non posso trastullarmi con l’alcol tutte le sere, quindi mi sono portato avanti. Ero certo che saresti tornato a chiedermelo. L’alcol fa dire la verità, non le menzogne» il barbuto uomo si girò e tirò fuori dal suo tanto criticato vaso sulla mensola un sacchetto di lino e lo porse all’amico che era rimasto piacevolmente sorpreso. Si legò in cinta quanto ricevuto e poi si accomiatò da lui dicendo: «Vado dagli altri, tu nel frattempo pensa a quello che ti ho detto e fai le valige!»

«Sì, certo. Non partire senza di me» Grimes accentuò la risposta con tutto il sarcasmo di cui era capace mentre il paladino usciva dalla fucina. Chiusa la porta alle sue spalle, Kanalagon seguì il corridoio che curvava verso destra e, percorso qualche passo, si trovò sulla sinistra la sala grande. La porta era rimasta aperta, probabilmente lasciata così da John per la fretta di raggiungere il cancello. Si fermò sulla soglia lasciando che il calore del grande camino gli carezzasse il viso.

Seduto al tavolo c’era Sir Wyatt, il cui mantello blu era piegato sullo schienale della sedia. Vestiva una maglia di lana a collo alto e a maniche lunghe di colore avana. Era intento a lucidare, come di consueto, il suo grande scudo di metallo con una pezza di stoffa unta. Davanti a lui, di spalle, Maeva fissava il fuoco con sguardo assorto mentre in mano faceva roteare una coppa di legno vuota. Aveva anche lei una maglia di lana come Sir Wyatt ma ne era riuscita a mantenere l’originario colore bianco. Calzava dei pantaloni di cuoio con para-cosce laterali e degli stivali della stessa fattura fino al polpaccio. Senza distogliere lo sguardo dalla danza ipnotica delle fiamme chiese distrattamente a Wyatt:

«Ma John si è perso? Secondo me il fischio se l’è immaginato…»

«È andato a mettere il cavallo nella stalla» il mezzelfo, ancora fermo sulla soglia, attese con un sorriso che i compagni si girassero. Wyatt si alzò di scatto mentre la donna fece cadere a terra il calice rimanendo stupefatta. Il sorriso di Kanalagon si fece più esteso quando i loro occhi si incrociarono poi si trasformò in una smorfia di dolore quando il compagno gli saltò addosso e lo abbracciò con vigore alzandolo e urlando a gran voce. La forza nelle gambe gli venne meno e, quando l’uomo lo lasciò dall’amichevole stretta, cadde a terra in avanti.

«Per tutti i fulmini! Kano, che cosa ti è successo?» Wyatt face un passo indietro credendo di essere responsabile della mancanza del mezzelfo. Su di lui ci fu subito Maeva che lo fece girare sulla schiena e gli scostò il mantello.

Wyatt si mise le mani nei suoi ricciuti capelli corvini, allibendo alla vista dell’armatura: «Per tutte le tempeste! Hai abbandonato il credo e sei nelle guardie del Re ora??»

«Taci Wyatt! Kano ma… ti manca un braccio!» la donna passò delicatamente la mano sopra il gomito fino a scendere verso la zona recisa.

«Che sbadato, devo averlo lasciato a Daroking!» il paladino a terra sorrise con espressione dolente poi svenne.

Si svegliò sdraiato in un letto morbido sotto a una calda e pesante coperta di lana che gli irritava la pelle in tutto il corpo. Era nudo, con il braccio sinistro che fuoriusciva dalla coperta, tirata su fino allo sterno. Alla sua sinistra c’era una candela che stava oramai per spegnersi, mentre ai piedi del letto, su una sedia, c’era Maeva che lo guardava con espressione cupa e crucciata. Si sentiva la bocca impastata e arsa, il riposo gli aveva ridato un po’ di vigore quindi tentò di alzarsi ma quando gli occhi azzurri della donna lo fulminarono decise di limitarsi a rimanere seduto sul letto. Poi, sistemato il cuscino contro il muro per alleviare il mal di schiena, chiese:

«Per quanto ho dormito?»

«Sono felice di vederti anche io» rispose piccata lei.

«Sì, scusami. Mi fa piacere essere tornato da… voi.»

«Сhe hai fatto al braccio?»

«Il regalo di qualcuno che mi ha insegnato che sottovalutare il nemico può condurre alla morte» il paladino rimase volutamente sul vago, poi con imbarazzo domandò «ma chi mi ha…»

«Io, non ti imbarazzerai vero? Ti ho già visto come “mamma ti ha fatto”. Volevo vedere in che condizioni ti eri ridotto…» prese con le dita la coperta ai piedi del letto e la tirò via scoprendolo del tutto.

«Maeva ma…» l’imbarazzo gli arrossì le gote sopra la barba.

«…quella ferita in mezzo al torace. È stato lo stesso che ti ha staccato il braccio? Come hai fatto a sopravvivere?»

Il disagio di essere nudo davanti a lei si dissolse e un grande senso di vuoto lo assalì. Questa vacuità trasparì dal suo sguardo mentre cercava invano di trovare delle parole da dire: aprì la bocca, ma non uscì fiato; poi abbassò gli occhi, incapace di sostenere lo sguardo di lei. Maeva a poco a poco cominciò a comprendere ciò che lui non riusciva a spiegarle, colmò la distanza che li separava, si sedette sul letto al suo fianco e, abbracciandolo, poggiò il mento sulla sua spalla sussurrando: «Scusami…»

La porta si aprì con vigore poi una voce squillante fece breccia nel silenzio della piccola stanza rettangolare: «Si è svegliato quel…PER IL DIO DEI NANI! SCUSATE!» Grimes, il fabbro del paladinato, fece una smorfia di imbarazzo poi si girò di scatto, tirandosi la porta dietro con lo stesso vigore usato per aprirla. Kanalagon si portò la mano che gli rimaneva al viso ed esplose in una risata incontenibile, rise di cuore come non aveva mai fatto. Anche Maeva, che all’inizio era rimasta contrariata dall’irruenza dell’uomo, lo seguì sommessamente. Questo riuscì a riempirgli il vuoto che sentiva e lo acquietò. Poi, tenendo a stento le risa e con le lacrime agli occhi, le chiese:

«Mi aiuti a vestirmi? Andiamo fuori a prendere un po’ d’aria fresca».

Passarono una decina di minuti e la porta si riaprì sul lungo e freddo corridoio, il mezzelfo uscì seguito dalla donna. Si voltò in direzione dell’porta d’ingresso, percorse gli ultimi metri pensando alle parole giuste da dire, parole che non trovava, così l’angoscia lo assalì. Avrebbe preferito trovarsi ad affrontare un drago. Lasciò la piccola candela sul mobile all’entrata poi varcò la fatiscente porta che lo separava dalle intemperie. L’acqua lo investì: la pioggia incessante era diventata quasi una tempesta. I lampi illuminavano il cielo a tratti mentre lui camminava lentamente respirando a pieni polmoni, poi da dietro sentì:

«Sei proprio sicuro di voler stare fuori?»

«Hai paura dei fulmini?» lui si voltò e, sorridendo goffamente, le fece un cenno con la mano «Andiamo sotto il rovere».

Lei lo seguì, tirandosi il cappuccio della cappa sul viso mentre cercava di schivare le pozzanghere con scarso successo. L’albero era stato piantato ben cinquecento anni prima, edificandogli intorno il paladinato, e aveva ormai raggiunto i quaranta metri di altezza. Il tronco era slanciato e da esso si estendevano molteplici rami nodosi, rendendo l’ombra proiettata dalla sua ampia chioma il posto ideale per il riposino estivo degli aspiranti paladini. Sulla grigia e liscia corteccia, fessurata longitudinalmente da madre natura, erano state incise nel corso degli anni le iniziali di tutti i paladini che erano passati per l’addestramento. Kanalagon arrivò per primo sotto i rami, si appoggiò con la mano all’albero e girandosi attese che Maeva lo raggiungesse, poi le chiese:

«A differenza vostra io non ho mai inciso la mia iniziale sull’albero. Mi passi il tuo pugnale?»

«Mi hai fatto uscire e bagnare sotto la pioggia per scrivere la tua K sul rovere??» rispose lei con disappunto.

«No. Voglio fare tutte quelle cose che ho messo in secondo piano da quando mi sono arrivate le voci dell’Occhio Rosso da ovest. Sai… che succede quando torni dal mondo dei morti?» mentre parlava prese il coltello dalla cinta di Maeva e cominciò a incidere sulla corteccia.

«No, nessuno me ne ha parlato. Che hai visto dall’altra parte?» la donna si avvolse maggiormente nel mantello per contrastare il vento e l’acqua che cominciavano a penetrarle nei vestiti.

«Niente. Non c’è niente, almeno che io possa ricordare. Quello che mi ha toccato però è che la vita che mi è stata ridata è solo temporanea»

«Cosa? Ma io credevo che…»

«Il tempo che ho riottenuto è limitato. Potrebbe durare un altro minuto, un altro giorno, oppure dieci anni. L’anima si rompe nel trapasso. E questo mi ha fatto capire che mi ero focalizzato solamente sulle mie origini. Ero ossessionato di sapere da dove provenissi, distogliendo l’attenzione verso dove dovessi andare. Non potevo trovare la direzione senza capire da dove partivo. Senza un punto di inizio, un punto fisso che mi desse il sostegno, ho perso il braccio e sono morto. Ma con la morte ho trovato il mio punto di inizio: ho capito che se non fosse stato per il sacerdote che mi ha riportato dall’aldilà, io non ti avrei più rivista. Purtroppo, partendo per la mia “cerca” ho pensato che tu fossi meno importante» il mezzelfo porse il pugnale indietro, verso di lei, continuando a fissare il tronco dell’albero. Maeva lo prese e lo rimise nel fodero in cintura. Kanalagon passò la mano sull’incisione, ricalcando con le dita le lettere K e M scritte attaccate, quasi una sull’altra, poi prese il sacchetto dalla propria cinta e lo offrì alla donna:

«Me li sono fatti fare da Grimes tempo addietro. Ho sempre pensato che il momento adatto non fosse ancora giunto. In realtà… avevo paura. Ma ora ho più paura che potrei non avere un’altra occasione per farlo… vorrei chiederti…».

Lei aprì il sacchetto e vuotò il contenuto nel palmo della mano: due anelli in argento caddero tintinnando. Li guardò stupita per un istante poi con occhi colmi di gioia lo fissò sorridendo:

«Non devi aggiungere altro…» si avvicinò a lui e lo accarezzò passandogli la mano sulla barba.

«Ora che non ho paura vorrei comunque chiedertelo: vorrei che tu mi aspettassi. Questi rappresentano una promessa» lui alzò la mano per appoggiarla su quella di Maeva ma lei la ritrasse velocemente.

«Vorresti che io aspetti? Che aspetti…cosa?» la gioia nei suoi occhi si dissolse.

«Vorrei che fossi tu il mio punto fermo. Ma devo terminare quello che ho cominciato. Sapere che tu sarai qui ad attendermi mi darà la forza… quando tornerò, noi…» il mezzelfo non riuscì a terminare la frase.

«Ad aspettarti? Mentre tu vai forse a morire in qualche valle, io dovrei restare qui, con l’ansia di non sapere se tornerai mai? Di non sapere se ti sia spento da solo in un bosco mentre cavalchi perché la tua anima ti ha abbandonato?» la donna fece un passo indietro e lo guardò determinata «Se vuoi che nel tuo futuro ci sia un “noi” io vengo con te!»

«Non posso permetterlo. Quello che sto affrontando è troppo grande. Saperti in pericolo mi ucciderebbe. Devi essere al sicuro, qui. Non avrei la forza di sopportare il dolore di perderti. Io tornerò se ci sarai tu ad aspettarmi» il paladino si avvicinò di nuovo a lei, tentò di prenderle la mano ma lei si scostò nuovamente esponendosi alla pioggia più fitta.

«Chi credi che io sia? Una principessa di un canto bardico? Vuoi proteggermi? Ma se non hai la forza di sopportare una possibile perdita… sei debole, e nonostante questo vuoi fare il protettivo! Io però dovrei avere la forza di sopportare l’idea che te ne vai un’altra volta e potresti non tornare. Quindi la forte sarei io, non tu! Tu non vuoi proteggere me, tu vuoi che io protegga te. Sei ridicolo…» Maeva gettò gli anelli a terra e lo guardò con rabbia. Tutto quello che provava per lui era ottenebrato dal rancore. Lui l’aveva ferita nell’orgoglio. Quello di donna ma soprattutto quello di condottiera del Dio del Fulmine: «Vai a dare i tuoi stupidi anelli a una dolce fanciulla elfica che potrà attenderti nel dorato regno boscoso con i suoi fratelli dalle orecchie a punta. Io non starò qui sulla finestra a fissare l’orizzonte nella speranza che tu, forse, un giorno comparirai. Sono una stupida. Ho sempre pensato a questo momento ed ero sicura che sarei stata io a dovertelo chiedere sperando in un tuo sì» si voltò per evitare di mostrargli le lacrime che stavano per sgorgare senza freni «invece adesso sei tu che ti becchi il mio NO, Kanalagon. Fai un favore ad entrambi: vattene subito!». Maeva si allontanò a passi pesanti verso l’edificio principale lasciando il mezzelfo fermo, sotto l’albero, impietrito. La osservava allontanarsi e voleva raggiungerla, ma non sapeva cosa dirle; quando ormai era a metà strada vide qualcun altro provenire dalle stalle e correre nella sua direzione, “forse è John”, pensò Kanalagon, ma poi vide che le saltò alle spalle e le serrò il collo, stringendole la gola con il braccio sinistro, poi con forza la fece ruotare con il viso nella sua direzione. L’aggressore estrasse un coltello che puntò per qualche secondo verso il condottiero sotto il rovere, infine lo rivolse verso il viso della donna.

Kanalagon si portò la mano destra alla cinta in cerca della spada che non trovò, avendola lasciata incautamente nella stanza, e ciononostante corse nella loro direzione.

Percepisci il male!

Un’aura sinistra proveniva dalla sagoma avvolta nella cappa bruna. Al sopraggiungere del mezz’elfo, l’assalitore parlò:

«Shhh paladino, fermati. Ho un coltello sulla gola della tua graziosa compagna. Se vuoi continuare a farla respirare devi fermarti e starmi a sentire» le parole gli giunsero appena percettibili, coperte dal rumore della pioggia e dal fragore dei tuoni. A Kanalagon sembrò di aver già sentito quel timbro vocale ma non riusciva a mettere a fuoco nella memoria quando e dove fosse accaduto. Un lampo illuminò Maeva e il giovane incappucciato. Quando scorse i suoi occhi si ricordò di lui: il garzone di mastro Rei!

«Senti, prima ho una curiosità: durante le tempeste vi mettete sotto gli alberi perché siete stupidi oppure siete certi che il vostro Dio del Fulmine vi protegga dalle folgori?» fece qualche passo indietro trascinando con sé la donna.

«Tu? Cosa vuoi da me? Come facevi a sapere dove fossi?» lentamente colmò di nuovo la distanza arrivando a un paio di metri da loro.

«Il tuo amico Pike è un chiacchierone. Ora tralasciamo le mie curiosità sulla vostra inettitudine e veniamo alle cose importanti…» Sionnach faceva ruotare il pugnale velocemente attorno alla punta. Kanalagon, mantenendo la concentrazione su di lui con i suoi poteri di percezione, gli propose: «Non so cosa vuoi ma ti propongo di scambiarmi con la donna. Lasciala andare e mi consegnerò a te!»

«Che bravo, il mio paladino! Mi leggi nel pensiero: era questa la mia proposta! Ma devi giurare sul tuo Dio dei Fulmini che mi seguirai senza indugi… ovunque io ti conduca» Sionnach fu interrotto da Maeva che con voce strozzata suggerì al compagno:

«Attaccalo!»

«Taci, sgualdrina! Giura, Kanalagon! Ora, sotto il segno del fulmine, il simbolo del tuo Dio. Giura! Ma sbrigati, altrimenti ingannerò il tempo facendo due belle fossette per migliorare il dolce sorriso della tua fidanzatina…» il giovane puntò il coltello sul lato destro della donna e cominciò a ruotarlo incidendole la pelle e facendo fuoriuscire del sangue. Kanalagon incrociò gli occhi della compagna d’armi che stava per perdere i sensi a causa della vigorosa morsa al collo. Decise di fare altri due passi con la determinazione di saltare addosso al ragazzo e bloccargli la mano ma le sue azioni erano perfettamente leggibili dall’aggressore, che lo anticipò deridendolo:

«Ma che vuoi fare? Saltarmi addosso? Ti reggi a malapena in piedi! Siamo stati vicini negli ultimi giorni: so in che condizioni verti. Sei disarmato e comunque anche in caso contrario non riusciresti neanche ad alzare la spada. Fai una cosa saggia paladino: giura!».

Kanalagon sapeva che Sionnach aveva ragione: non era in grado di reggere una lotta, per giunta con un arto solo. Ma la vista di Maeva in quelle condizioni gli diede la determinazione di continuare. Si sentì dentro una forza nuova che lo muoveva e gli diceva di agire:

«Ti… giuro… ti giuro dal profondo del cuore che… ti fermerò». Rapido, fece un solo passo e allungò la mano destra fino ad afferrare il polso del giovane, che fu preso alla sprovvista. Afferrato il suo nemico sentì un fremito nascere dall’addome e risalirgli il torace, poi il braccio e infine il polso. Una scarica elettrica emerse dalla sua mano, che produsse dei piccoli lampi, i quali si propagarono all’articolazione del ragazzo. Quando giunsero sull’ostile aggressore crebbero e crepitarono più intensamente, facendogli perdere forza. Kanalagon lo tirò a sé allentando la stretta e liberando Maeva, che cadde a terra ansimando e mettendosi le mani al collo. Le scosse continuarono a inondare tutto il corpo di Sionnach, paralizzandolo. Cadde sulle ginocchia con gli occhi sbarrati, senza fiato, mentre il mezzelfo lo teneva per il polso. Anche il paladino era stupito di quanto accaduto e mentre cercava di ripercorrere con la mente l’istante appena trascorso, i suoi occhi caddero sul palmo della mano sinistra del nemico, che teneva ancora serrata nella sua, e sull’anello infilato al dito medio: un occhio rosso spuntava dalla banda di metallo. Il condottiero serrò ancora più intensamente le dita avvicinando agli occhi l’oggetto del suo stupore:

«Sei… dell’Occhio Rosso? Io… vi cerco da una vita mentre… voi cercate… me?»

Sionnach cominciava a percepire di nuovo la sensibilità agli arti e la mente dall’oblio tornò a elucubrare: adesso voleva ucciderlo! Ma se era il protatore non poteva, altrimenti sarebbe morto lui comunque. L’istinto assassino ebbe comunque il sopravvento. Provò prima a muovere le dita della mano destra ancora libera e, tornata la sensibilità, estrasse più veloce che poté il secondo coltello dal retro della cintura, poi lo diresse rapidamente al collo del condottiero. Il paladino vide l’attacco e contro il suo stesso istinto chiuse gli occhi e percepì dentro di sé una scintilla luminosa. Le parole arrivarono alla sua bocca spontaneamente:

« R a i d o ! »

Il paladinato fu illuminato a giorno per un brevissimo istante. Una folgore emerse dalla mano di Kanalagon investendo completamente il nemico che spirò sul colpo, la lama cadde a terra, annerita, prima di riuscire a raggiungere l’obiettivo, seguita dal corpo del presunto garzone e da quello del mezzelfo.

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