Aveva un cappuccio calato sulla testa; si trovava incatenato, inginocchiato sulla fredda e dura pietra. Erano ormai trascorse ore da quando lo avevano trascinato e abbandonato da solo in quello spazio ampio; ne aveva dedotte le dimensioni grazie all’eco prodotta dai passi che i suoi rudi carcerieri avevano fatto dietro di lui dopo averlo legato lì: venti ampi passi, per essere precisi, poi, dopo un flebile rumore di cardini ben oleati, più nulla, solo il suo respiro all’interno del cappuccio di lana. Il dolore delle percosse subite non accennava a diminuire e sempre più frequentemente sentiva che il suo senso dell’equilibrio veniva meno. Continuava a muovere le dita delle mani nel vano tentativo di aumentare la circolazione sanguigna bloccata dalle catene serrate intorno ai polsi, ma ormai il formicolio stava per tramutarsi in intorpidimento e da lì a poco non sarebbe più riuscito a muoverle.
A un certo punto il suo fine udito da elfo oscuro gli permise di avvertire di nuovo il lontano rumore dei cardini, seguito dai passi di due persone che rapidamente si stavano avvicinando. Mentre tentava di concentrarsi per capire che tipo di stivali calzassero, un forte suono provenne da una trentina di metri dinanzi a sé: sembrava come prodotto da gigantesche pietre che sfregavano tra loro. I due appena entrati gli si misero ai fianchi in silenzio e non si mossero più, come in attesa di qualcosa.
Improvvisamente una voce che sembrava provenire dall’oltretomba esordì:
«Tristan, Sabrant, perché ce lo avete portato?».
La persona ferma alla sua sinistra rispose con una voce a lui ben nota:
«E’ rientrato nell’Ordine dopo un lungo periodo di assenza. Lo abbiamo assoldato per una missione per cui sembrava fosse ideale ma durante essa mi ha ucciso. Avrei dovuto giustiziarlo, ma ha un’informazione in suo possesso che altrimenti non potrei ottenere» era il seguace dell’Occhio Rosso con cui era andato alla Chiesa del Dio del Castigo.
«Perché non utilizzi una compulsione mentale?» intervenne una voce rauca, questa volta proveniente da davanti.
Dalla destra rispose il mago reale di Daroking, con cui l’elfo scuro non aveva mai parlato: «Ho trovato tracce di una compulsione mentale pregressa, se dovessi aggiungerne un’altra potrei compromettere la sua psiche, già di per sé poco stabile a causa dell’eccessivo uso dell’erba allucinogena da cui è dipendente. Sarebbe meglio non rischiare».
Una terza voce molto profonda riecheggiò in tutta la sala:
«Quanto è importante tale informazione?».
Di nuovo la voce alla sua destra prese parola rispondendo:
«Molto: potremmo riprenderci l’Anathorim e, non meno importante, ottenere il portatore».
La voce dal regno dei morti ribatté tempestivamente:
«Il portatore finale? Ne siete assolutamente sicuri?».
L’individuo alla destra dell’elfo scuro riprese il filo del discorso interrotto:
«Sembra essere il portatore della profezia e, per quanto le profezie siano solo il presagio del migliore dei percorsi, mi sentirei rassicurato dal vederla compiuta, piuttosto che tentare un altro ciclo con un portatore qualsiasi».
La voce profonda attese qualche secondo prima di intervenire, poi sentenziò:
«Uccidetelo, poi portatelo dal Necromante e fatevi dire l’informazione di cui necessitate».
La voce alla destra rispose con rammarico al comando impartito:
«Purtroppo, sembra che Nagaš aiuti anche il portatore illegittimo dell’Anathorim. Non possiamo condividere questa informazione con lui».
La voce rauca giunse all’unica soluzione rimasta:
«Non ci resta che contrattare con l’elfo: Lexe, qual è il tuo prezzo per l’informazione?».
L’elfo aveva sudato freddo durante tutto il dialogo tra le cinque diverse voci intorno a lui ma finalmente era giunto ciò che lui più si auspicava: una trattativa. Calmò il respiro e si concentrò per rimanere calmo, poi rispose scandendo lentamente le parole:
«Io non parlo a un cappuccio! Toglietemelo e vi detterò le mie condizioni».
Dopo pochi secondi, i due individui ai lati lo misero in piedi e gli tolsero il cappuccio di lana dal viso. La vista si adattò subito all’ambiente; l’iride bianco, che risaltava sul nero della sclera tipico degli elfi scuri, si allargò permettendogli di scorgere nell’oscurità tutti i dettagli: la stanza era circolare e davanti a lui, in un braciere largo due metri, una fiamma magica bruciava emettendo una debole luce rossa. Illuminate da questa, nel varco circolare aperto nella parete curva dinanzi a sé, stavano tre figure calve vestite di rosso: quella sulla sinistra era un essere senza palpebre né labbra, che reggeva un bastone sulla cui sommità brillava una fiamma come quella del caldano; sulla pelle grigia del suo cranio erano incise, in un linguaggio non leggibile a causa della distanza, lettere o simboli e il simbolo di un occhio. Aveva solo due fessure verticali al posto del naso sopra ad unna perfetta dentatura e una mandibola a punta. Non gli era possibile capire se avesse o meno le orecchie visto che la tunica rossa aveva un colletto che partiva dal diadema a forma di occhio fissato al centro del petto e si alzava verticale verso il viso, coprendone i lati fino a terminare con un ampio arco dietro la nuca. La veste non aveva maniche, ma due ampie aperture da cui emergevano le braccia scarne coperte da un bendaggio aderente di colore scarlatto. Gli occhi lattiginosi erano incastonati in due orbite contornate da rughe violacee, l’iride e la pupilla non erano distinguibili.
Il Lexe avrebbe scommesso qualsiasi cosa gli fosse rimasta che la voce dall’oltretomba fosse la sua. L’individuo al centro era più alto del primo e i suoi paramenti erano simili, ma più articolati: attraverso lo scollo si scorgevano i tatuaggi sul collo, sul mento e sopra il naso da cui si allargavano a ventaglio sul glabro cranio dal malsano tono olivastro. Il suo sguardo serio e austero fissava il Lexe con innaturali iridi rosse. L’individuo dall’incarnato chiaro sulla destra invece, aveva sulle vesti rosse un colletto lungo di colore nero e oro, le maniche della veste erano ampie e voluttuose e celavano le mani. Sul petto spiccava una vistosa collana composta da dodici monete collegate tra loro con degli anelli, il cui intreccio formava lo stesso occhio presente sui diademi dei due alla sua destra. Sul suo volto i lineamenti fini e delicati stridevano con i tatuaggi tribali che lo adornavano, scendendo dall’occhio sinistro lungo la gota fino ad arrivare alle labbra nere, arricciate in un disgusto che si rispecchiava anche nei suoi occhi, parimenti neri e fissi sull’elfo, tenuto per le braccia dai due adepti. Il Lexe stava cercando di associare i volti alle voci che aveva udito, quando fu interrogato nuovamente dalla voce rauca, proveniente dall’individuo sulla destra dall’aspetto più umano: «Ora che conosci i nostri volti puoi dirci cosa desideri. Mi riservo però di instradare tale trattativa con l’unica postilla necessaria: la sincerità. Pertanto, mi trovo in dovere di comunicarti che per aver ucciso un membro dell’Occhio Rosso tu non possa aspettarti altro che la morte. Dacciò ti informo che non puoi chiederci di aver salva la vita. Ci troveremmo in una situazione di stallo che ci costringerà a prendere una strada che, come forse avrai già notato, non abbiamo neanche paventato tra le possibilità, se non ora come ultima spiaggia: l’estorsione di informazioni attraverso la tortura. Orsù dunque, dicci il tuo prezzo».
L’elfo non si aspettava un discorso tanto conciso e diretto ma si trovò ad apprezzarlo: avrebbero potuto evitare tutta la fase in cui ognuna delle parti avrebbe dovuto dimostrare la propria forza. Così in maniera altrettanto concisa e diretta rispose:
«Voi volete sapere dove e quando le vostre “prede” si raduneranno Io posso dirvi con sicurezza che dove stanno andando non è riuscito a entrare neanche Daro il Conquistatore con il suo esercito, quindi per voi non c’è speranza!»
«Quindi le tue informazioni sono inutili, e come tali anche tu lo sei» la voce profonda lo interruppe manifestando la voglia di interrompere la trattativa.
Il Lexe riprese il discorso velocemente temendo una repentina chiusura:
«Voi non potete entrare lì, ma io sì! Grazie al mio aiuto potrete compiere l’impresa che fu impossibile persino per Daro, e solo al piccolo prezzo di una delle vostre prede. Deve essere mia e mia soltanto. Dopo potrete anche uccidermi».
La voce gelida e lontana dell’essere senza palpebre e labbra lo interruppe gelandogli il sangue nelle vene:
«Tristan, la preda dell’elfo oscuro è il portatore della profezia?»
Gli occhi turchesi dell’uomo alla destra dell’elfo incrociarono i vuoti del suo interlocutore:
«No, non è la stessa persona».
La voce profonda dell’olivastro uomo al centro eruppe:
«Allora è deciso: procedete come meglio ritenete e una volta portato a compimento quanto necessario, togliete la vita al Lexe dopo che egli avrà ottenuto quanto richiesto».
Proferite queste parole i tre si girarono e si allontanarono, mentre al loro posto sopraggiungeva rotolando lateralmente una grande ruota di pietra che sigillò il varco illuminato dal magico braciere.
Sabrant strattonò l’elfo scuro facendolo cadere con il viso a terra:
«Bene Lexe, hai vinto questa battaglia. Speravo nella tortura, ma alla fine sarò comunque io a darti l’estrema unzione. Adesso dicci dove si incontreranno!»
Il mago interruppe l’interrogatorio appena iniziato dal compagno:
«Te lo dico io dove: nella città nanica di Kar ‘N Kar».
L’uomo si passò la mano nei capelli brizzolati e si voltò allibito:
«Lo sapevi già? Perché non lo hai detto subito allora, invece di tutto questo teatrino con la “Trinità”?».
Tristan si girò verso il Lexe e lo aiutò ad alzarsi:
«Perché l’ho capito solo ora che ha menzionato Re Daro il Conquistatore. E adesso veramente vorrei sapere come possiamo entrare, perché da quel che so io, quel posto è inespugnabile»
«Allora ho la tua parola che manterrai gli accordi?» l’elfo scuro si lasciò aiutare dando ascolto al suo corpo dolorante e ignorando il suo orgoglio.
«Morirai comunque e quindi pagherai il tuo debito, mentre del chierico non mi interessa. Porta avanti la tua vendetta personale e spira in pace con il tuo io. Non ho nulla da eccepire, ma adesso spiegami come vorresti entrare nella roccaforte dei nani» tutto ciò che Tristan non riusciva a dedurre lo incuriosiva come poche cose nel mondo.
«Useremo l’Undervarde» rispose con uno sguardo maligno il Lexe.
«L’Undervarde? Vuoi dire che i nani hanno scavato fin lì?!» Tristan era stupito e poche cose erano in grado di farlo: per quanto folle e sconsiderato, questo sembrava essere l’unico piano con una piccola probabilità di riuscita.
L’elfo si compiacque nel vedere negli occhi di quell’individuo tanta sorpresa; il suo piano gli era piaciuto, ma nonostante ciò sapeva che per la riuscita serviva anche dell’altro, così aggiunse:
«Vi serve comunque un diversivo: il varco è stretto e se ci vedessero arrivare riuscirebbero a difenderlo persino in due, anche se attaccassimo in migliaia. Dovremmo lanciare una carica frontale a una delle porte, così mentre organizzano la difesa, noi attaccheremmo da dentro».
Tristan scosse la testa non appena sentì quelle parole: «No, non basterebbe neanche una carica a una delle porte: i nani dovrebbero sentirsi molto sotto pressione per lasciare le miniere. Vi è solo una possibilità: dobbiamo attaccare entrambe le porte, simultaneamente e in maniera massiccia»
«Io vado da dietro, mentre tu vai davanti, Tristan?», Sabrant si intromise nel discorso con sarcasmo.
Senza raccogliere la provocazione, il mago proseguì nei suoi ragionamenti e rispose:
«No, noi concentreremo l’attacco sul terzo fronte. I primi due li faremo attaccare con foga e vigore da qualcun altro»
«Chi?» chiese il compagno, irritato dalle frasi ad effetto che il mago era solito proferire.
«Sarà l’Anathorim stesso ad attaccare. Forniremo le informazioni a Rolas, il Deva che lo serve fedelmente, e lui stesso le porterà all’usurpatore. Cosicché mentre i nani cercheranno di difendere le due vie di entrata, noi irromperemo per la terza via inaspettata e vinceremo!»
–
I nani erano schierati a due a due, con gli scudi torre piazzati davanti e le asce naniche poggiate sul bordo superiore, con le sommità perforanti sul davanti, pronti per un attacco in carica. Dinanzi allo schieramento della squadra di guardia, il luogotenente pose con poco garbo una domanda al mago elfo:
«Maegras, come mi chiamo e qual è il mio epiteto di battaglia?».
Il mago rispose con tempestività:
«Sei Alzek, figlio di Krum; sei conosciuto come “il maglio d’argento”. Ponimi altre domande qualora non t’avessi convinto, ti risponderò senza prender tempo».
Il nano si accarezzò la barba nera con il guanto ferrato sinistro libero, essendo l’unico degli otto usciti a non imbracciare uno scudo. Soppesò la risposta poi continuò con le domande:
«Perché non imbraccio lo scudo?»
«Perché di solito combatti con due armi: ascia e martello; in questo momento non è appeso alla tua cintura, probabilmente l’avrai ammaccato di nuovo e lo starai riforgiando come fai ogni qual volta che l’integrità strutturale ne viene compromessa.»
«Mi hai quasi convinto, ma ora elencami velocemente tutti i membri della squadra uscita. Se sei chi dici di…» il nano non fece in tempo a completare la frase, che Maegras rispose prontamente nonostante fossero visibili solamente gli occhi e le sopracciglia, essendo parte dei volti dietro gli scudi a difesa:
«Prima fila: Ersiam figlio di Sabim e Kubrat figlio di Boril. Seconda fila: Doko figlio di Tzoko e Blag figlio di Dobyr. Terza fila: Zoq figlio di Jivot e Boqn figlio di Boji. In coda Blagodat fratello di Boqn e quindi figlio di Boji»
A queste ultime parole Alzek guardò il mago elfo in maniera arcigna, poi si girò e con rabbia chiamò a gran voce: «Blagodat!».
Un flebile «Sì» emerse dalle retrovie.
«Che ci fai in fila? Doveva esserci Delec nella squadra di controllo della porta sud!»
Il mago elfo sussurrò al nano: «Avranno scommesso ai dadi e Delec avrà vinto; di solito ha una fortuna sfacciata»
Una voce impacciata fece eco alle parole di Maegras:
«Scusa compagno Alzek, ho sostituito Delec all’ultimo: ha vinto ai dadi il turno di oggi»
«E quando avevate intenzione di dirmelo? Tre giorni di consegna in miniera senza pasto per te e per compagno Delec, il “fortunato”».
Il malumore del nano scomparì di scatto quando si volse verso il nuovo arrivato:
«Maegras, grazie per avermi aiutato a portare rigore tra i miei frivoli compagni e soprattutto grazie per essere giunto in questo momento così nefasto per noi. Il necromante…»
Maegras colse l’indecisione nel discorso per inserirsi con garbo, sapeva che interrompere un nano mentre parla è mal tollerato:
«Alzek, figlio di Krum, scorgo nei tuoi occhi un’ombra cupa. Non sarebbe più saggio parlarne tra le solide braccia della montagna?»
«Ma certo! Hai la saggezza di un nano, mio buon amico. Posso prima chiederti chi sono i tuoi compagni?»
«Agladur, sacerdote del Dio del Castigo e Turgul, mezzelfo stregone. Sono con me e garantisco io per loro, puoi fidarti. Ora credo che indugiare in ulteriori presentazioni possa essere nefasto. Ci concedi asilo nella tua maestosa città?» il mago pronunciò le ultime parole con un profondo e lento inchino.
«La tua garanzia è accettata. Compagni! Voltatevi e fate strada. Marcia!».
I nani si girarono all’unisono come un solo corpo e cominciarono a marciare con lo stesso ritmo con cui erano venuti.
Mentre si allontanavano, Maegras si girò verso i due compagni rimasti dietro di lui in silenzio e sussurrò:
«Due piccoli accorgimenti. Il primo: chiedete con garbo e vi sarà dato, quasi tutto. Il secondo: ogni qual volta ne avrete l’occasione, fate dei piccoli complimenti all’architettura e alla maestosità della loro città, magari con un piccolo e accennato inchino. Vi prenderanno in simpatia e tutto il soggiorno passerà piacevolmente.»
«E’ proprio necessario?» chiese disgustato Agladur.
«Sì, se non vuoi rischiare di essere gettato fuori in malo modo oppure finire in una delle loro buie prigioni. Non tollerano toni sgarbati o altezzosi ed essere un elfo non ti procura certo dei benefici» Maegras non attese risposta certo di essere stato esaustivo. Turgul annuì con la testa e lo seguì, mentre il chierico cercò di rendere la sua faccia il più inespressiva possibile. Raggiunsero allungando un po’ il passo la squadra nanica a ridosso della grande porta di pietra che cominciò a spostarsi lateralmente da sola, infilandosi in un’ampia fessura nella pietra. Quando la varcarono Turgul cercò di misurarne lo spessore e rimase sorpreso dal vedere che superava due nani affiancati. Dietro di essa si apriva un corridoio largo tre metri e alto inizialmente sei, poi dopo pochi passi si abbassava fino a disegnare un quadrato perfetto scavato nella pietra, che proseguiva dritto nel cuore della montagna per almeno una quarantina di metri. Ogni dieci metri si vedeva spuntare in alto una grande pietra e lo Stregone si soffermò a guardare la prima, cercando di capire. Il compagno mago arrestò la marcia e rispose alla sua silenziosa domanda:
«E’ una porta sorretta da funi: in caso di intrusione si cala e blocca l’entrata. Ce ne sono quattro».
Turgul esclamò a gran voce: «Alzek, figlio di Krum, mai mi era capitato nella vita di vedere una fortezza con cotanta solidità. È inespugnabile!»
Il nano, ora in coda nella marcia, si fermò per un istante e si voltò verso il mezz’elfo:
«Beh, vi ringrazio. Per non essere un nano avete un occhio molto attento. Vi offrirò una birra e vi racconterò di cose ancor più solide e inespugnabili»
«Mai potrei rifiutare!» l’arcanista rispose con un piccolo inchino che provocò un tronfio e orgoglioso sorriso nel luogotente, il quale si girò e riprese la marcia. Turgul incrociò lo sguardo del mago che con un breve cenno del capo approvò il tentativo ben riuscito di instaurare un rapporto.
Seguirono tutti il tunnel perfettamente dritto fino all’inizio di una scalinata. Scesero una cinquantina di gradini prima di emergere in un ampio salone illuminato solo da fiaccole, con il soffitto talmente alto che non si vedeva nell’oscurità, ed era così vasta che i due nuovi arrivati non riuscirono a contarne le colonne. Nel grande salone marciavano innumerevoli pattuglie da otto nani che si dirigevano in tutte le direzioni verso le innumerevoli aperture aperte nelle pareti. Giunti in quello che poteva sembrarne il centro, Maegras si accostò al luogotenente nano e gli chiese con gentilezza una deviazione, poiché non potevano presentarsi così sporchi di fronte al Re dei Nani e alla sua corte. Dopo un «Pfui, elfi» e una sonora risata, Alzek acconsentì e deviarono in un’altra direzione. Agladur allora chiese delucidazioni al compagno, che gli spiegò:
«Stiamo andando al mio laboratorio»
«Cosa? Quello nell’albero?» il chierico era disorientato.
«Sì, ho un portale di accesso anche qui nella roccaforte nanica» rispose Maegras.
«Perdonami, ma allora perché non siamo usciti direttamente qui invece di fare tutto il giro??» era esterrefatto.
«Ti rispondo io, Agladur – intervenne Turgul – il portale di uno spazio dimensionale può dare solo su uno spazio fisico per volta. Immagino che ora Maegras lo riaprirà da qui e quello dell’albero cesserà di funzionare. Giusto Maeg?»
«Corretto Turgul, ma non è un problema: quando tornerò farò lo stesso e questo nella città si chiuderà».
«Cosa ti serve dal laboratorio?» ribatté seccato il chierico che non aveva gradito la spiegazione da parte del mezzelfo.
«Ho lasciato il mio portale in una specie di sala grande che fu creata per ospitare tutti i membri delle altre razze che hanno aiutato il popolo nanico in passato; grandi eroi accettati e rispettati da tutta la comunità. Infatti, c’è uno spazio dedicato a mia madre dove lei ha lasciato la sua armatura di argento nanico, le sue armi e il suo zaino da avventuriera, al cui interno sono sicuro di trovare il diario delle vicende che ha vissuto in passato. Vicende riguardanti il suo attuale rapitore».
Giunsero dopo una decina di minuti nonché varie scale e varchi nella sala descritta dal mago elfo e lì Alzek chiese di quanto tempo necessitassero per rinfrescarsi dal viaggio.
«Almeno sei o otto ore mio buon amico!» rispose Maegras con un profondo inchino.
«Sei? Otto? Non vi sembra un po’ eccessivo? Vorrei sfruttare la tua visita per farti parlare al più presto con il Re. Abbiamo sempre il problema del necromante che continua ad attaccarci…» il nano sembrava impaziente ma il mago gli chiese subito:
«Gli attacchi sono regolari?»
«Ha attaccato tre volte negli ultimi cinque giorni» rispose pronto il nano.
«Immagino di notte fonda, giusto? – Maegras cominciò a elucubrare mentre poneva le sue domande – Bene, ho ragione di pensare che attacchi ogni due giorni e sempre nel momento più distante tra il crepuscolo e l’alba. Se le mie deduzioni sono corrette, il prossimo attacco potrebbe accadere domani notte. Ti sembra plausibile?»
«Un ragionamento impeccabile. Abbiamo raggiunto la stessa ipotesi, solo che noi ci abbiamo impiegato cinque giorni e non cinque secondi. Sei una preziosa risorsa, mio buon amico elfo. Attenderemo le tue sei ore. Ti lascio due compagni di squadra fuori dalla “Sala degli Amici del Mondo”. Quando sei pronto, fatti scortare dal Re e mandami a chiamare», il nano fece un cenno con la testa e si girò, impartendo gli ordini ai compagni dietro, poi prese cinque elementi con sé e marciò nella direzione dal quale erano venuti.
I tre appena scortati varcarono la soglia della sala e mentre Maegras si dirigeva a prendere una fiaccola appesa al muro fu apostrofato da Turgul:
«La tua capacità deduttiva è impressionante Maeg!»
«Non questa volta: ho già fronteggiato il necromante, e so come pensa e come agisce, quindi non è merito delle mie capacità deduttive ma solo della mia esperienza. Ora seguitemi, prendiamo il diario di mia madre e poi prepariamoci al peggio»
«Quale peggio? Il posto non è inespugnabile? Non lo abbiamo scelto per questo?» chiese il chierico.
«È inespugnabile, ma ho affrontato il necromante ed è così calcolatore che questa cosa l’avrà ponderata a fondo: ci sono due entrate ed entrambe sono ben protette, per cui uno come lui avrà pensato a un ulteriore modo. Io almeno farei così: cercherei una terza via per entrare, devo solo scoprire quale».